Ma se uno viene chiamato “scannacristiani” vorrà pure dire qualcosa, no? Soprattutto se quel soprannome, 'nciuria in siciliano, gliel’hanno dato i suoi amici, quelli che con lui andavano in giro per le vie di Palermo ad ammazzare giudici, bambini e nemici di cosca. Stiamo parlando di assassini, in particolare di uno che si chiama Giovanni Brusca, il mafioso pentito che il pomeriggio del 23 maggio 1992 era appostato sulla collina di Capaci con un telecomando fra le mani.

Ora lo stato italiano, dopo avere ordinato la sua scarcerazione un anno fa quando lo “scannacristiani” aveva già scontato un quarto di secolo di carcere, si è accorto che è «socialmente pericoloso». Non tantissimo però, solo un pochettino. In quanto non è che è stato riacchiappato e rinchiuso in un penitenziario ma sottoposto a quella che viene definita sorveglianza speciale, obbligo di firma due volte al giorno, divieto di uscire di casa prima di una certa ora al mattino e di rientrare a casa dopo una certa ora di sera. Insomma, pericoloso ma non pericolosissimo.

Obbligo di firma due volte al giorno

Il provvedimento è della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, su una proposta del questore della capitale dell’isola motivava, a quanto pare, per le «frequentazioni criminali» che Brusca non avrebbe mai abbandonato in questi ultimi dodici mesi di libertà.

Decisione tecnicamente ineccepibile, anche se questa vicenda che riguarda Giovanni Brusca è avvolta da un’ipocrisia senza fine dal giorno che si è iniziato ad annunciare il suo ritorno a una vita lontana dalle sbarre. Un po’ pesante da digerire visto il passato del personaggio. Di sé una volta ha detto: «Sono un animale, ho ucciso e anche ordinato l’uccisione di più di centocinquanta persone ma non ricordo i nomi di tutti».

Il patto con lo stato

La legge è legge. E vuole che un mafioso che collabori con la giustizia possa beneficiare di sostanziosi sconti di pena, indipendentemente da ciò che di riprovevole ha fatto. Difficile da accettare ma è così: bisogna tenere ben distante il piano giudiziario da quello etico.

«Anzi, più grande è lo spessore criminale del soggetto e più quel soggetto serve allo stato che con lui stringe un patto. Che se ne fa lo stato di un criminale che svela un piccolo giro di spaccio? Allo stato serve il mafioso che scopre i segreti dell’organizzazione», ci ricorda Alfonso Sabella, il magistrato che ha guidato la cattura di Brusca nel maggio del 1996 e che ha seguito tutte le prime fasi del suo pentimento. Un patto che lo stato deve rispettare. L’ha fatto con Brusca, con Tommaso Buscetta, con Francesco Marino Mannoia, con Antonino Calderone e con qualche altro centinaio di boss che hanno saltato il fosso.

Ma nel caso specifico di Brusca il problema oggi è un altro: la recidività a un anno esatto dalla sua scarcerazione. Come affrontare la questione dei mafiosi pentiti che tornano (e ce ne sono stati tanti) a delinquere? In Italia non abbiamo mai cercato una soluzione vera, al contrario degli americani molto più realistici di noi. Quando là lo stato stringe un patto con un criminale – ben sapendo che è un criminale – si assume anche il costo sociale dei loro eventuali delitti dopo la collaborazione. C’è un fondo federale per risarcire le vittime. È lo stato che fa il patto con loro ed è lo stato che alla fine ne risponde.

Alla ricerca del perdono

Non sappiamo esattamente cosa abbia combinato Giovanni Brusca nel suo primo anno di libertà e dopo che, predicatori e procuratori dell’antimafia, avevano salutato come «una vittoria dello stato» la sua scarcerazione. Fa comunque impressione rileggere la relazione comportamentale finale del carcere di Rebibbia dove lui era detenuto: «Il Brusca ha più volte rappresentato il suo distacco dalla sua vita precedente cercando di dare concretezza a questo distacco non solo attraverso la collaborazione con la Giustizia, ma anche mettendosi in contatto con quei soggetti che hanno fatto della lotta alla criminalità organizzata una battaglia civile e culturale, al fine di dare il proprio contributo».

E ancora: «Brusca da molto tempo ha manifestato la volontà di chiedere il perdono alle famiglie delle vittime dei suoi reati: per comprensibili motivi di sicurezza e riservatezza, ci sono stati mediatori in questo processo, come con una nota familiare di una vittima». Fra una richiesta di perdono e l’altra, Giovanni Brusca ha trovato il modo di riprendere vecchie abitudini. Speriamo che l’aria della libertà non l’abbia tanto frastornato da fargli venire voglia di tornare lo “scannacristiani” di un tempo.

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