«Mia deliziosa moglie, pur sapendo che domattina la posta non viene ritirata, il mio cuore desidera stare con te in questo sabato pomeriggio». Comincia così la lettera che Pino Rogoli, fondatore della Sacra corona unita, scrive il 29 marzo a sua moglie Domenica Biondi, detta Mimina, dal penitenziario di Viterbo dove è detenuto con il regime del 41 bis, il carcere duro. La signora non ha mai rilasciato interviste. Oggi rompe un silenzio durato cinquant’anni perché preoccupata per le condizioni di salute del marito. Stringe al petto una borsa dalla fantasia vistosa da cui sfila la lettera che mostra a Domani. Rogoli scrive: «Non ci sono novità, nonostante i solleciti e querela presentati dall’avvocatessa finora manco l’ombra, se l’occhio è stato danneggiato per la negligenza altrui...faremo ricorso a tutte le autorità competenti».

Federica Musso, classe 1984, nasce negli anni e nella città in cui la Scu prende vita: «Per ragioni anagrafiche sono subentrata solo di recente nella difesa di Rogoli». Tre anni fa, Rogoli è stato operato all’occhio destro per la rimozione della cataratta. «Da due anni ha richiesto all’istituto penitenziario di essere sottoposto a visita oculistica: lamenta dolore e offuscamento della vista all’occhio sinistro. Tale richiesta reiterata più volte è stata sempre inevasa».

Musso invia la prima pec di sollecito al carcere di Viterbo nel luglio del 2024 e a settembre dello stesso anno deposita un’istanza al tribunale di sorveglianza di Viterbo. E ancora con una pec del marzo 2025 sollecita con urgenza la visita oculistica. Il 13 marzo 2025 il carcere tramite pec comunica: «La visita oculistica per il detenuto in oggetto indicato avrà appuntamento in tempi brevi».

Dice la signora Biondi: «È inconcepibile che una persona detenuta non abbia il diritto di ricevere le cure necessarie come qualsiasi cittadino libero». Il 18 marzo 2025 Mimina Biondi sporge denuncia presso il Tribunale di Viterbo. «Proprio nei giorni scorsi – scrive Rogoli nella sua lettera – ho letto sul giornale che la corte europea per i diritti umani ha multato l’Italia per un mancato ricovero di un detenuto e nonostante ciò se ne fregano facendosi conoscere a livello europeo per lo squallore del trattamento sanitario dei detenuti».

Le origini

«Ci siamo conosciuti in Germania nel gennaio del 1969», racconta la moglie che al tempo aveva 17 anni, Rogoli 23. «Eravamo due operai. Io in una fabbrica di biscotti, lui di bottiglie». A giugno dello stesso anno si sposano. Dopo sei anni e due figli tornano in Italia, a Mesagne, la città di Rogoli. «Io maledico quel giorno». Negli anni Settanta lui lavora come piastrellista. «Portava a casa 500mila lire a settimana. Usciva all’alba e tornava la sera». La prima condanna per Rogoli è per furto. A seguire rapina e porto d’armi, poi violenza e oltraggio a pubblico ufficiale: «È in carcere che cambia la sua vita».

Negli anni Settanta il boss camorrista Raffaele Cutolo sposta il contrabbando di sigarette sulle coste pugliesi dove sceglie i più promettenti malavitosi locali per fondare la Nuova camorra pugliese. Nelle celle delle carceri si genera una tensione tra camorristi e criminali pugliesi insofferenti al comando campano. A guidare il malcontento c’è Rogoli, capo carismatico, già affiliato alla ‘ndrangheta, il quale il primo maggio 1983 in una cella del carcere di Bari, fonda la Sacra corona unita.

Nel 1984 il giudice Alberto Maritati istruisce presso il tribunale di Bari il primo grande processo contro i vertici della criminalità organizzata pugliese. Dispone perquisizioni a tappeto. Nella cella di Rogoli viene trovata un’agendina in cui è scritto: «La Sacra Corona Unita è stata fondata da G.R. l’1 maggio 1983 e con l’aiuto dei compari diritti». Seguono organigrammi, elenchi di affiliati, ordini per la consumazione di reati, punizioni per coloro che hanno «sgarrato» e una descrizione del giuramento: «Giuro su questa punta di pugnale di sangue di essere fedele a questo corpo di società, formata da uomini attivi, liberi, franchi e affermativi, con tutte le regole e prescrizioni sociali. Giuro di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione. Giuro di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue. Giuro di mettere un piede nella fossa e l’altro nella catena per dare un forte abbraccio alla galera». Nel corso dell’interrogatorio Rogoli dichiara: «Qui nelle patrie galere succedono tante cose gravi ed io come più grande, più saggio, è vero che spesso dò dei consigli. [...] Per quanto attiene alla Sacra Corona Unita non è stata creata per commettere reati ma solo per regolare e decidere le varie questioni insorte tra i detenuti». Le sue parole violano i principi di segretezza e provocano una spaccatura all’interno della Scu. Il gruppo foggiano si rende autonomo mentre Rogoli conserva il controllo sulla componente brindisina e leccese: inizia una stagione di violenze, rapine, estorsioni e omicidi di quanti ostacolano l’organizzazione.

«Negli anni Ottanta mio marito è stato trasferito nel carcere di Porto Azzurro sull’Isola d’Elba», racconta la signora Biondi. «Un giorno vado a colloquio lì e mi arrestano». La portano nel carcere di Brindisi. «Poi mi faccio i domiciliari». Il reato è associazione a delinquere semplice. «Dall’88 al ‘93 mi faccio sei anni per associazione a delinquere di stampo mafioso».

Nel 1990 si svolge a Lecce il maxi-processo alla Scu: vengono stabilite 73 condanne tra cui 22 anni di reclusione per Rogoli. In quella occasione viene riconosciuta per la prima volta in Puglia l’aggravante dell’associazione di tipo mafioso.

Dal 1992 Rogoli è in regime di 41-bis con condanne definitive all’ergastolo per aver ordinato le esecuzioni di nemici nell’associazione mafiosa.

Il 41 bis

«Mio marito sta scontando la sua pena», dice la signora Biondi, «ma ora per il ritardo nelle cure mediche rischia di perdere la vista». «Il 41 bis – dice l’avvocata Musso – deve impedire le relazioni tra il detenuto e l’organizzazione criminale, non aggiungere un’ulteriore pena non prevista dal nostro ordinamento». Dal 1992 Pino Rogoli vive in una cella singola. Dispone di fornelli personali per scaldare cibi già cotti. Nella lettera alla moglie scrive: «Tutto quello che mi hai portato è stato succulento al massimo. Oggi ho mangiato le cime di rapa con la pasta, mi sono scialato». Con la circolare del 2017 nello spazio comune può fare uso di matite o acquerelli in un numero non superiore a 12. In cella può tenere al massimo quattro libri e non più di trenta foto e ogni foto non può superare i 20x30 cm.

Nel 2018 la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) per aver rinnovato l’applicazione del 41 bis al detenuto Bernardo Provenzano nonostante le sue deteriorate condizioni di salute. Nel regime del 41 bis il colloquio si svolge con un vetro divisorio a tutta altezza e la comunicazione avviene tramite microfoni o citofoni. Solo ai minori, come il nipote di Rogoli, è concesso il colloquio senza vetro. Nella lettera Rogoli scrive: «Sto bene, i soliti sintomi sono appena percettibili, ho tutt’ora la dolcezza nel cuore per il colloquio di pochi giorni fa». Secondo la signora Biondi, «fa riferimento agli acciacchi di un ottantenne. Il suo corpo regge nonostante tutto. Sforza l’occhio buono per scrivermi perché le lettere sono il modo per stare vicini». Il corpo in carcere si fa parola. Il corpo pretende la dignità nella pena, rivendica il diritto di essere curato. Esiste anche il corpo del minore che varca il confine del vetro, si fa testimone del contatto fisico col nonno, costruisce dentro di sé un’idea di Stato e un’idea di famiglia.

La donna continua a leggere la lettera: «Mi vanto di avere una moglie che con la sua tenacia supera tutto: avanti sempre, amò». Poi la ripiega e la mette nella borsa dalla fantasia vistosa che ritrae una donna di spalle mentre guarda l’architettura magnifica di una città d’arte italiana. La fantasia racconta una donna da sola in viaggio. Ma dal fondo della borsa spunta una cancellata scura. Mimina Biondi porta la gabbia sempre con sé. A tracolla, a contatto con il suo corpo che da 44 anni viaggia per l’Italia per incontrare suo marito detenuto, vederlo attraverso un vetro, sentirne la voce metallizzata dal citofono. Nella cella del 41 bis invece la fantasia per Pino Rogoli, fondatore della mafia pugliese e capo di una stagione sanguinaria di omicidi e traffici illeciti, oggi con un occhio offuscato dalla cataratta, è una foto della sua Mimì in formato 20x30.

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