La commissione parlamentare antimafia ha gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, poteri che non consentono di divulgare gli atti, anche quelli del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. 

La procedura per chiederne copia e consultarli conferma la forzatura commessa da Andrea Delmastro Delle Vedove e Giovanni Donzelli, rispettivamente sottosegretario alla Giustizia e deputato di Fratelli d’Italia nella vicenda dei colloqui tra l’anarchico, Alfredo Cospito, e i boss di mafia. 

«Non ci sono dubbi, quegli atti non potevano essere diffusi, le condotte che hanno assunto sono da sanzionare, visto che anche la procedura di un organismo bicamerale d’inchiesta prevede una prassi consolidata che vieta ogni possibile divulgazione», dice Rosy Bindi, esponente del Pd, che ha guidato la commissione antimafia dal 2013 al 2018. 

La procedura per un parlamentare che vuole approfondire una relazione come quella letta in aula da Donzelli è articolata e rigidissima. 

L’onorevole deve fare richiesta dei documenti da consultare, la pratica viene vagliata dall’ufficio di presidenza, che inoltra formalmente l’istanza al Dap per il rilascio degli atti. A questo punto la procedura diventa inflessibile. 

Nessuna divulgazione

La commissione parlamentare antimafia ha accesso a tutti gli atti, ma quando entrano nella disponibilità della bicamerale d’inchiesta i documenti vengono secretati, i componenti della commissione possono vederli, leggerli, ma non si possono copiare, fotografare e, ovviamente, non si possono divulgare.

Il controllo sull’accesso agli atti è rigoroso: l’onorevole richiedente deve registrarsi per vedere l’atto, viene segnata l’ora di visualizzazione e monitorata la consultazione. 

«Sono atti sensibili, non è possibile divulgarli in alcun modo, non è mai successo, nel caso in discussione l’acquisizione della relazione è avvenuta senza neanche un passaggio formale», dice Bindi. 

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha provato a coprire i due fedelissimi di Giorgia Meloni infilandosi in una improbabile arringa difensiva attraverso un comunicato diffuso nei giorni scorsi. 

«La natura del documento non rileva e disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati», ha scritto il ministro. Atti che, se richiesti da un componente di una bicamerale d’inchiesta, sarebbero stati secretati e consultati senza possibilità di copia e divulgazione.

Martedì il ministro dovrà spiegare tutto alla Camera dei deputati, mentre prosegue l’indagine della procura di Roma. Nei giorni scorsi sulla questione è intervenuto l’ex senatore Luigi Manconi, che ha sollevato pesanti dubbi sulla genesi del caso scatenando la reazione di alcuni sindacati. 

«Fino al 23 dicembre 2022, i detenuti al 41 bis che avevano possibilità di qualche comunicazione con Cospito erano considerati inoffensivi, non costituivano più un pericolo attuale. Successivamente cambia il gruppo di socialità e in luogo di quelli inoffensivi arrivano tre boss della criminalità organizzata, attivi e attualmente pericolosi. Sono quelli con i quali vengono intercettati brandelli di comunicazione, brandelli che innescano la polemica e l’attacco alle opposizioni», dice Manconi.

Il cambio del gruppo

Bisogna precisare che nel primo gruppo di socialità c’era anche Pietro Rampulla, condannato per la strage di Capaci dove morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie magistrata, Francesca Morvillo, e la scorta.

Di certo i contatti e i rapporti dialogici più intensi tra Cospito e i mafiosi avvengono con il cambio del gruppo di socialità. 

I sindacati, con in testa il Sappe, hanno chiesto un intervento al ministro Nordio, parlando di «insinuazioni» da parte di Manconi.

Intanto le parole dell’ex senatore saranno oggetto di un’interrogazione parlamentare. «Si tratta di domande legittime, chi ha deciso il cambiamento del gruppo di socialità? Perché? La coincidenza temporale del cambio di gruppo di socialità con l’inizio degli ascolti è quanto meno bizzarra. Il Dap deve spiegarla», spiega Manconi.

Questa vicenda racconta anche i nuovi rapporti di forza all’interno del mondo penitenziario che girano attorno al sottosegretario Delmastro, e le vecchie ruggini con i precedenti governi.

Le cause e la genesi sono da chiarire, ma l’effetto è pubblico: imbarazzare un’opposizione che quando era al governo è apparsa molle e insensibile ai temi degli agenti penitenziari.

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