La svolta interventista di tutti i governi europei a seguito dell’epidemia di Covid ha reso inattuali le solite argomentazioni pro e contro l’intervento pubblico nell’economia. Ma anche in questo nuovo clima, la partecipazione della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), insieme alla Borsa francese Euronext, alla cordata per l’acquisizione di Borsa Italiana e di Mts (mercato dei titoli di stato) dal London Stock Exchange (Lse) è l’esempio calzante di un investimento che lo Stato italiano non dovrebbe fare.

L’Italia è un paese oberato dal debito pubblico e a bassa crescita: in queste condizioni il principale criterio di ogni investimento pubblico dovrebbe essere la sua capacità di contribuire all’aumento della crescita potenziale del Paese, agendo sulla produttività dei fattori sia direttamente, sia indirettamente promuovendo gli investimenti privati.

Senza crescita, tanto il debito pubblico quanto le disuguaglianze sociali diventano insostenibili.

Imprese globali e redditizie

Oggi, le Borse sono imprese tecnologiche e informatiche i cui ricavi derivano principalmente dalla fornitura di dati e servizi, dai derivati, e dalla gestione dei sistemi di pagamento, piuttosto che dai tradizionali scambi azionari.

Inoltre, le Borse sono un settore globale, perché i mercati sono globali e integrati; ne consegue la tendenza ad aggregarsi in grandi gruppi, anche per avere le dimensioni necessarie a fronteggiare la concorrenza delle piattaforme alternative per gli scambi.

Come tutte le grandi società globali e tecnologiche sono molto redditizie: nel 2019 il risultato operativo (utili prima di imposte e interessi) delle dieci maggiori Borse del mondo - Ice (possiede il New York Stock Exchange), Nasdaq, i due mercati di derivati di Chicago (Cme e Cboe), Lse, Deutsche Borse, Euronext, le Borse di Tokyo, Australia e Hong Kong - è stato del 47 percento; ovvero il doppio di Apple e Google (25 e 22 percento, rispettivamente).

Impossibile capire come l’intervento pubblico in un gruppo multinazionale (Euronext già possiede cinque Borse in Europa), in un’industria globale e redditizia, possa portare vantaggi alla crescita dell’economia italiana.

Il capitale di quasi tutte le Borse nel mondo è in mano ad azionisti privati, quasi sempre i principali utenti (banche, intermediari finanziari, assicurazioni) perché interessati alla qualità, efficienza e costi dei servizi offerti.

L’eccezione per l’appunto è Euronext, dove all’8 per cento detenuto (indirettamente) dallo stato francese si andrà ad aggiungere l’8 per cento di Cdp.

L’altra eccezione è Hong Kong, dove però il Governo locale si limita al 6 per cento. Ragionevole invece che banche e intermediari italiani partecipino.

La giustificazione sarebbe che lo Stato potrà in questo modo esercitare un controllo sull’Mts. Ma anche la sola percezione di una possibile interferenza statale nella determinazione del prezzo dei nostri Btp potrebbe scoraggiare la partecipazione degli investitori stranieri in momenti di crisi, oggi più che mai importanti per la gestione del debito pubblico.

Senza contare che in Borsa l’azionista pubblico partecipa ormai al controllo di quasi la metà della capitalizzazione delle società quotate, escludendo le banche.

La sensazione dunque è che si tratti di un’operazione di potere (visibilità politica, poltrone, relazioni) priva di benefici per la crescita.

Il rendimento non è tutto

Si dirà che l’investimento assicura un elevato rendimento a Cdp, il cui conto economico dipende in modo cruciale dai dividendi delle partecipate (43 per cento del risultato operativo al netto del costo del credito nel primo semestre 2020); che a loro volta sono cruciali per pagare dividendi al Tesoro.

Infatti, sembra questa la principale determinante degli investimenti di Cdp: società redditizie e competitive che non hanno bisogno dei capitali pubblici, ma la cui governance assicura una posizione di potere, come Borsa Italiana o Eni; nuovi gruppi capaci di costituire posizioni monopolistiche in settori in forte espansione (e quindi generare rendite), in cui Cdp punta a giocare un ruolo di riferimento, come nei progetti di fusione tra Nexi e Sia nei sistemi di pagamento, e tra Tim e Open Fiber nella banda larga; o aziende con posizioni dominanti in infrastrutture esistenti come Terna, Snam, Italgas, Poste e, prossimamente Autostrade per l’Italia (Aspi), senza contare in quest’ultimo caso il vantaggio di essere parte correlata, essendo Cdp socio rilevante di imprese di costruzioni ed engineering (WeBuild, ex Salini-Impregilo, e Fincantieri).

Una valida strategia di investimento se Cdp fosse un fondo di private equity. Così non sorprende il grande interesse di fondi come Kkr e Macquire per la società unica della rete. Ma per lo sviluppo del Paese sarebbe più utile la promozione della concorrenza, perché capace di creare nuove opportunità di investimento.

Venture capital, non private equity

Piuttosto che il private equity, Cdp dovrebbe fare venture capital: invece di investire in gruppi consolidati, dai ricchi flussi di cassa, dovrebbe ricercare i potenziali campioni di domani tra le aziende giovani nei settori in forte espansione.

La strategia di Cdp dovrebbe perseguire la massimizzazione delle esternalita positive per la crescita, la produttività e gli investimenti privati. Per esempio, l’auto elettrica rivoluzionerà il settore della componentistica, trainante del nostro manifatturiero, ma non si investe nelle batterie che però costituiscono quasi la metà del valore di queste auto.

Dovrebbe essere chiara l’importanza della logistica con l’avvento dell’ecommerce e la riorganizzazione dei processi produttivi grazie a 5G e stampanti 3D; ma da noi è un settore però troppo frammentato, dominato dai colossi esteri e dipendente dal trasporto su gomma, estremamente inquinante.

A proposito di ambiente, non ci sono grandi progetti per il trattamento dei rifiuti, la rete idrica o il rischio idrogeologico; né investimenti in tecnologie che abbattano il costo di produzione dell’idrogeno, per cercare di rendere green i settori più inquinanti.

Le risorse non sono infinite

Cdp non può fare qualsiasi tipo di investimento: deve focalizzarsi perché le sue risorse non sono sterminate come si crede. Cdp ha circa la metà degli attivi di Intesa (pre Ubi) o Unicredit, ma operando con una leva maggiore (quasi 18 volte il suo rapporto tra attivo e patrimonio rispetto alle circa 14 volte delle due banche) non può espandere più di tanto il suo bilancio.

Il governo ripete ossessivamente di non voler fare di Cdp il nuovo Iri. Ma almeno l’Iri nel dopoguerra aveva un progetto e una strategia chiara per la crescita del Paese: promuovere la mobilità di persone, merci e idee (le autostrade, le ferrovie, la Rai, la Stet); garantire la fornitura delle materie prime (rete nazionale elettrica, gas, petrolio, acciaio, chimica) e dei capitali a lungo termine (i Mediocrediti) necessari allo sviluppo del manifatturiero su cui allora puntava l’Italia. Così, diede un contributo fondamentale al boom economico. Oggi invece non vedo né progetto né strategia.

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