Si chiamano Iryna Dogvan, Alisa Kovalenko, Fariba Karimi e Yuval Tapuchi. Vengono da Ucraina, Israele e Iran. A Roma e a Milano hanno portato le loro storie e una lotta comune: «Difendere le donne ovunque siano oppresse»
Iryna arriva da Kiev. Ci ha messo due giorni per raggiungere Roma. Ma il suo viaggio è cominciato con la fuga da Donetsk nel 2014. Anche Alisa viene da Kiev. È arrivata con la telecamera da documentarista e la memoria del fucile, imbracciato come soldata nell’esercito ucraino dei volontari. Fariba è scappata dal regime di Teheran. In Italia dal 2009. Yuval viene da Tel Aviv. Quattro ore di volo per essere a Roma con le altre, ma il suo viaggio è cominciato molto tempo prima, con il massacro del 7 ottobre, quando è riuscita a salvarsi dalle violenze di Hamas.
Iryna, Alisa, Fariba e Yuval sono donne sopravvissute agli orrori delle guerre e alle violenze di regimi e terrorismi. Sono testimoni del nostro tempo. Parlano l’ucraino, l’israeliano, il persiano, ma tra loro hanno una lingua comune. Quella universale del femminismo. Si sono incontrate il 4 marzo a Roma e il 5 a Milano per un evento organizzato dall’associazione Sette Ottobre. Esserci con i loro corpi e le loro voci significa lottare insieme. La trasmissione collettiva di una stessa forza.
Con loro c’era anche Paola Concia, ex parlamentare italiana: «Il femminismo universale difende le donne ovunque siano oppresse. Non esclude le donne ucraine, israeliane, palestinesi e iraniane nel nome di un anti-occidentalismo che ha la meglio sulla battaglia di libertà». Per Concia, «Il femminismo o è ovunque o non è».
Iryna e le donne ucraine
Viene da Donetsk, occupata dai russi per quasi 9 anni, Iryna Dogvan, che nel 2014 ha cominciato a fornire cibo e vestiti ai militari ucraini. «Una mattina, i soldati russi fanno irruzione in casa mia, mi mettono un sacco in testa e mi portano via». Per giorni ha subito percosse, torture e costanti minacce di stupro di gruppo: «Morirai, mi dicevano. Ero a pezzi. Non ero più una persona».
Un giorno i miliari l’hanno portata nella piazza di Donetsk. Avvolta nella bandiera ucraina, le hanno messo addosso un cartello: «Lei uccide i bambini. È una spia dei fascisti». «Un militare ha tenuto la mira verso le mie ginocchia per molto tempo. Poi ha sparato di lato. Un altro mi ha strappato la maglietta e si è preso gioco del mio seno».
I soldati russi hanno invitato i passanti a picchiare Iryna: «Mi prendevano a calci e mi sputavano». Tra le persone confluite intorno a quel corpo esposto, però, c’era un reporter americano. Ha scattato alcune foto, le ha mandate al suo giornale e il giorno dopo il New York Times le ha pubblicare rendendo virale l’immagine di una donna ucraina torturata dai militari russi: «Mi hanno salvato la vita».
A settembre del 2014 Iryna era al consiglio Onu sui diritti umani dove ha preso la parola: «Chiedo alle Nazioni unite di avere garanzie dalla Russia che non sarò perseguitata per aver detto la verità».
Anni dopo, Iryna è diventata direttrice di SEMA Ukraine, che supporta le donne ucraine sopravvissute alle violenze di guerra. La sua missione è andare in giro nei territori liberati per incontrare le donne vittime della violenza russa, rendere nota la loro testimonianza e aiutarle nel percorso legale: «Noi sopravvissute siamo responsabili di quelle che non ce l’hanno fatta. Se rimaniamo in silenzio, questa violenza non finirà mai».
Alisa, la soldata con la macchina da presa
Della rete SEMA fa parte anche la regista Alisa Kovalenko che nell’incontro di Roma ha presentato un estratto di Traces, il suo documentario su sei donne ucraine, sopravvissute alla violenza sessuale, alla prigionia e alla tortura durante l’aggressione russa in Ucraina dal 2014 al 2023.
Durante le riprese nella regione del Donbass, Alisa è stata fermata a un posto di blocco russo e portata in un ufficio dove è stata interrogata per giorni. «Mi dissero che mi avrebbero tagliato le dita e le orecchie. Poi un ufficiale mi chiuse in un appartamento. La pistola puntata, mi fece togliere i vestiti». Alisa ha subito violenze sessuali. Quindi è stata rilasciata. I colleghi giornalisti sapevano della sua prigionia: se fosse stata uccisa, ci sarebbe stato molto clamore.
«È stato difficile per me parlare di quello che ho vissuto. Mi vergognavo». Alisa sente che qualcosa si è rotto dentro di sé: «La telecamera creava una distanza tra me e la realtà. Volevo fare di più». Il 24 febbraio del 2022 a seguito dell’invasione russa Alisa ha scambiato la macchina da presa con il fucile: «Mi arruolai con l’esercito dei volontari. Andai al fronte a combattere».
Mesi dopo, la sua base militare è stata bombardata e un amico è stato ucciso. Alisa doveva prendere una decisione: arruolarsi definitivamente o tornare a raccontare la realtà. «Mi misi a montare il mio film. Guardavo le immagini e piangevo. Il documentario è la chiave per sentirsi connessi con il mondo». Nei prossimi mesi Alisa terminerà il suo nuovo documentario: «È un racconto sulla memoria collettiva del trauma».
Fariba e il movimento Donna Vita Libertà
«Nella mia arte cerco di rendere visibile il tempo e le mie sensazioni». Fariba Karimi viene da Teheran. È a Roma dal 2009: «Sono scappata con la scusa di studiare. Sono una pittrice. Come donna non potevo esprimermi». Nel 2016 Fariba è tornata a Teheran ed è stata arrestata dalla polizia morale: «Avevo un cappotto troppo corto».
Nel centro detenzione di Vozara ha sentito le altre ragazze detenute piangere. Per lo stato islamico, dopo la terza volta che vieni arrestata, ti viene negato il permesso di uscire dal paese: «Quando tornavo, ero sempre in ansia».
Dopo l’omicidio di Masha Amini nel 2022, uccisa perché non indossava correttamente il velo, Fariba è diventata attivista del movimento Donna Vita Libertà: «Per la mia partecipazione politica, se torno a Teheran, mi arrestano». Nel 2024 Fariba ha rinunciato al passaporto iraniano: «Non voglio avere il documento di uno stato in cui non mi riconosco».
Oggi Fariba è in contatto con la diaspora iraniana nel mondo: «Siamo la generazione nata dopo il ’79. Ci svegliamo di notte con i fusi orari dal Canada all’Europa all’Australia per connetterci e parlare: stiamo organizzando un’opposizione internazionale contro il regime».
Con un carboncino Fariba segna graffi neri sulla tela: «Essere donna in Iran significa essere oggetto politico del regime che fonda sulla nostra umiliazione la sua forza. Le donne in Iran non si accontentano di togliere il velo: puntano al rovesciamento di un sistema di potere patriarcale».
Sfuma con il mignolo il tratto grafico. «Le donne nelle guerre di tutto il mondo subiscono violenza, umiliazione, femminicidi. È questa consapevolezza comune che ci unisce nell’incontro sul femminismo universale».
Yuval e il 7 ottobre
«Il 7 ottobre sono andata con gli amici al Nova festival». Un evento musicale a cui partecipavano giovani provenienti da 36 paesi da tutto il mondo. Yuval Tapuchi, 26 anni allora, era arrivata a mezzanotte. «Alle 6:29 del mattino la musica si è fermata. Missili arrivavano diretti verso di noi». Un uomo della sicurezza ha urlato: ci sono i terroristi di Hamas, andate via!
Yuval è scappata verso est. «In tanti iniziamo a correre tra gli spari e i fischi dei proiettili a pochi metri da noi. Il gruppo di persone dietro di me diventava sempre più piccolo. Non ho più guardato indietro. Correvo e basta». Ha corso per 30 chilometri in un campo aperto tra esplosioni, urla, stupri, panico. Ha corso verso est e si è salvata. Se avesse preso un’altra direzione, la sorte sarebbe stata diversa.
«La mia vita è cambiata profondamente. Ho perso la fiducia di muovermi nel mondo. Di notte non dormo. Gli incubi di quel giorno mi perseguitano. Il 7 ottobre non mi ha più lasciata». Molti amici di Yuval sono stati uccisi, altri rapiti, alcuni liberati, altri ancora no. Yuval vive a Tel Aviv, ha iniziato un percorso di guarigione dal trauma. Prima del 7 ottobre, gestiva una clinica per diabetici. Ora fa arte e tatuaggi.
«Questo attacco ha cambiato per sempre la vita di molte donne e le sue conseguenze continueranno a risuonare per anni. Ma ha anche rivelato la resilienza, la forza e la solidarietà femminile, che sono diventate una luce nell’oscurità immensa». (Photo credit: Setteottobre)
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