Un recente studio condotto da Oxfam ha stabilito che, sulla base dei dati resi pubblici dalle aziende, le emissioni di carbonio annuali riconducibili a 125 tra i miliardari più ricchi al mondo possono essere equiparate a quelle di uno stato di 67 milioni di persone (come la Francia).

Già contando unicamente l’utilizzo di jet privati, yacht e consumi, le emissioni dei più ricchi sono 1000 volte superiori rispetto a quelli delle persone comuni; ma se a questo numero, già di per sé sconvolgente, si aggiunge che la maggior parte di loro investe in aziende inquinanti, il dato sale a milioni di volte l’inquinamento che emette il 90per cento della popolazione mondiale. Lo studio ipotizza inoltre che se questi miliardari investissero in aziende attente alla questione climatica si potrebbe raggiungere un livello di emissioni quattro volte inferiore a quello attuale. 

Il futuro passa dal clima

LaPresse

Se si parte da questi dati per analizzare gli scenari di un possibile futuro che veda un’umanità attenta al clima, viene spontaneo chiedersi come sia possibile che tuttora si dibatta sulla possibilità di una tassa fissa per la popolazione atta a trovare fondi per la crisi climatica, e che, in stati come la Francia, nel 2018, si sia arrivati alle lotte dei gilet gialli per l’aumento delle tasse sul carbonio.

Purtroppo la risposta non è semplice, né immediata, sebbene basti il buon senso a capire che sia assurdo che chi incide maggiormente sul clima possa pagare una cifra in tasse pressoché uguale a chiunque altro. Tutti emettiamo carbonio su tre livelli differenti: ne produciamo personalmente attraverso i nostri consumi, ne produciamo mediante le scelte dei governi che votiamo e, infine, attraverso gli investimenti che facciamo. Ma mentre il cittadino comune concentra, per la maggior parte, le sue emissioni nei primi due punti, l’1 per cento più ricco della popolazione incide mediante gli investimenti. 

La più grossa differenza che distanzia le persone ordinarie dai grandi investitori è proprio questa: la possibilità di investire in misura tale da poter decidere che direzione dare al mondo, ed è proprio la scelta di finanziare progetti di attività inquinanti, che li porta a inquinare come intere nazioni. In pochi minuti i miliardari emettono più CO2 della maggior parte della popolazione in un anno.

Non abbiamo tutti lo stesso peso

Foto Michele Nucci/LaPresse 08 Febbraio 2022 - Bologna, Italia - cronaca nella foto: cassonetto raccolta indifferenziata differenziata con rifiuti immondizia rusco messi fuori dal contenitore - uso improprio, maleducazione Photo Michele Nucci/LaPresse February 08, 2022 - Bologna, Italy - news in the pic: differentiated undifferentiated collection bin with rusco garbage put out of the container - improper use, rudeness

Ci è stato insegnato che le scelte che compiamo hanno un peso di rilievo sull’inquinamento; che la raccolta differenziata, il numero di voli che prendiamo, le compagnie aeree che scegliamo, i vestiti che acquistiamo o i cibi con cui decidiamo di nutrirci, sono la reale motivazione della crisi. La verità è che, di fronte a questi dati, risulta chiaro quanto questa narrazione sia distorta e marginale. 

Ed è normale chiedersi se abbia un senso continuare a prestare attenzione all’ambiente, rischiando di lasciarci trascinare in un gorgo di frustrazione dato dalla consapevolezza che tutto questo è molto più grande di noi. Senza una giustizia sociale e una più equa distribuzione degli oneri finanziari rispetto alla crisi, c’è il forte rischio che la transizione verso un sistema più sostenibile (che non solo è possibile, ma anche economicamente auspicabile), diventi motivo di ostilità e rabbia, qualcosa che va combattuto e non sostenuto.

La prima mossa che dobbiamo fare sulla scacchiera della transizione ecologica deve partire dall’interno, deve partire da noi, è solo cambiando il nostro modo di pensare e di approcciarci alla vita e ai consumi, che possiamo realmente apportare una modifica alla narrazione che ci sta portando alla deriva. Il fatto che la carbon footprint di aziende e politica abbia un ruolo fondamentale nella crisi, infatti, non significa che non esistano delle responsabilità individuali.

Effetto sunk cost

Anxious man in sinking boat watching shark fin in sea (Ikon Images via AP Images)

Nel saggio Primavera Ambientale, il giornalista climatico Ferdinando Cotugno sostiene che «quei piccoli atti di divulgazione quotidiana» sono un importante gesto di attivismo, siccome «prima di essere lotta politica, la giusta transizione è atto comunicativo». È un passo faticoso, poiché raccontare la crisi non garantisce seguito o ascolto immediati, spesso significa incontrare opposizione, rabbia, incomprensione, superabili solo con l’empatia verso chi ascolta, necessaria a comprendere la difficoltà di attuare un cambiamento su sé stessi.

In economia esiste un termine specifico che si riferisce alla difficoltà umana ad ammettere la sconfitta: si chiama sunk cost, ed è uno dei bias cognitivi più pericolosi. Un investimento irrecuperabile che l’investitore non capitalizza per paura o vergogna di dover ammettere di aver fallito, continuando così a perdere soldi. 

È la stessa logica del giocatore d’azzardo che ha perso troppe puntate al casinò per accettare di smettere di giocare e tornare a casa senza bottino, o di due amanti che non riescono a lasciarsi andare a causa di un investimento emotivo troppo elevato. 

Ecco, quello che ci sta accadendo con la crisi climatica, per certi versi, è piuttosto simile. Cambiare il nostro stile di vita occidentale è faticoso, farlo quando sappiamo che Cina e India inquinano molto più dell’Europa è ancora più difficile. Ma bisogna considerare che il nord del mondo si è già preso il 92 per cento dello spazio consentito all’eccesso di emissioni dentro l’atmosfera.

© Riproduzione riservata