Sono le cinque del mattino e i poliziotti bussano alla porta di un appartamento nel centro di Milano. Nessuno risponde, in casa però c’è qualcuno. Bussano ancora, non vogliono sfondare, sono impazienti ma preferiscono evitare azioni rumorose. Passano quasi dieci minuti e poi, finalmente, la porta si apre. Davanti a loro c’è un uomo con i capelli arruffati, in mano stringe un cellulare, sul pavimento ci sono cinquantadue pen drive in frantumi.

È l’alba del 14 maggio 2018 e Calogero Antonio Montante detto Antonello, vicepresidente di Confindustria con delega alla Legalità, viene arrestato per associazione a delinquere, corruzione, spionaggio, intercettazioni illegali. Prima di andare ai domiciliari nella sua villa di Serradifalco, nel cuore della Sicilia, con un piccolo cacciavite fa sparire il suo archivio informatico.

Tutto. Nomi, numeri, registrazioni audio e video. Nemmeno una settimana dopo, il giudice firma il suo trasferimento in una cella del carcere Malaspina di Caltanissetta: inquinamento delle prove. In villa ha fatto entrare di nascosto un giardiniere e un addetto alla vigilianza, ha trafficato con il suo iPad, mandato messaggi all’esterno. E nelle stesse ore, a Milano, un vicino di casa trova sul suo balcone uno zainetto che Montante ha lanciato dalla finestra quando aveva sentito bussare alla porta. Voleva liberarsi di altri documenti, appunti e registri contabili.

Il tentativo

«Non ho aperto perché pensavo che fosse brutta gente, ho avuto paura che la mafia mi volesse uccidere, ho provato a chiamare la polizia con il cellulare ma le mani mi tremavano», risponde lui quando lo interrogano. Non gli credono. E gli investigatori cominciano a rovistare fra i resti di quelle cinquantadue pen drive. Ne cercano una in particolare, una con dentro la memoria delle “telefonate del presidente”, le quattro conversazioni intercettate dai pm siciliani fra le pieghe dell’inchiesta sulla trattativa stato-mafia, l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino mentre parla con Giorgio Napolitano. La Corte costituzionale, dopo il conflitto fra la procura di Palermo e il Quirinale, ne aveva ordinato la distruzione e i file erano stati ufficialmente cancellati nel carcere dell’Ucciardone il 23 aprile del 2013. Qualcuno però ne ha fatto una copia – almeno questa è la convinzione dei procuratori di Caltanissetta – e l’ha “regalata” a Calogero Antonio Montante. Un’altra arma nelle sue mani, questa volta per un ricatto eccellente.

Negli atti del processo contro l’ex vicepresidente di Confindustria ci sono decine di pagine che raccontano di una trama intorno al capo dello stato. Esiste ancora una riproduzione audio delle telefonate o è stata disintegrata quella mattina a Milano? La custodisce Montante in uno dei suoi famigerati archivi o è in possesso di qualche suo complice? È mistero ancora tre anni dopo il ritrovamento delle “chiavette”. Il personaggio che ha consentito di sviluppare quest’indagine nell’indagine è il colonnello dei carabinieri Giuseppe Pino D’Agata, ufficiale transitato nei ranghi del servizio segreto civile e prima capocentro a Palermo della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Con quell’incarico ha potuto ascoltare le telefonate del presidente e con quell’incarico avrebbe affidato i file, secondo le ipotesi dei magistrati, all’allora vicepresidente di Confindustria che era a capo di una banda di trafficanti di informazioni riservate. Tutti i segreti di questa “operazione” vengono in superficie con la voce dell’ufficiale intercettata nei mesi che precedono il suo arresto, avvenuto lo stesso giorno della cattura di Montante.

Le “talpe”

Il colonnello Giuseppe D’Agata è da molto tempo sotto controllo. Parla con il direttore dei “servizi”, il generale Arturo Esposito. Parla con il tributarista palermitano Angelo Cuva, un enigmatico personaggio legato all’ex presidente del Senato Renato Schifani. Sono tutti a processo come "talpe” nel processo Montante, accusati “di avere veicolato notizie riservate di un’inchiesta giudiziaria". Ma soprattutto il colonnello parla con sua moglie Maria Rosa Battiato.

È il 31 gennaio del 2016 ed è agitatissimo, la donna cerca di calmarlo, lui risponde che «ha trovato l’articolo». Il riferimento è a una dichiarazione dell’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia apparsa, il 9 novembre 2015, sul quotidiano Libero dove l’ex magistrato spiega che vorrebbe scrivere un libro. Titolo dell’articolo: Ingroia e le telefonate di Napolitano...Vi svelerò il contenuto. Il colonnello è nervoso, la moglie lo consiglia passo dopo passo, gli suggerisce cosa avrebbe dovuto dire – se mai l’avessero ascoltato sull’argomento delle telefonate fra Mancino e Napolitano – ai pubblici ministeri, ai suoi colleghi della Dia, al capo dei servizi segreti. Ma Giuseppe D’Agata è in paranoia. Un mese dopo, siamo nel febbraio del 2016, il colonnello confessa alla donna che non riesce più a dormire.

Le “talpe” l’hanno avvertito dell’indagine di Caltanissetta contro Calogero Montante e lui è sconvolto. Le telefonate intercettate nel processo Stato-mafia sono esattamente 9.295, D’Agata però è ossessionato soltanto da quelle quattro registrate sull’utenza di Nicola Mancino fra il 7 novembre del 2011 e il 9 maggio del 2012. Passa qualche mese ancora e il colonnello è in auto, sempre con sua moglie Maria Rosa.

L’auto è “microfonata”, ci sono cimici dappertutto. D’Agata spiega che a Roma ha appena incontrato il tributarista Angelo Cuva, di avere parlato con lui delle famose telefonate fra Mancino e Napolitano, di avere saputo che “molto probabilmente” sarebbe stato interrogato sulla vicenda. Il colonnello è nel panico. La moglie lo rassicura un’altra volta, gli dice che deve rispondere in maniera evasiva «perché alla Dia comandavi 200 uomini e non potevi conoscere tutto quello che succedeva».

L’informazione di Cuva è attendibile: la procura di Palermo, su sollecitazione del ministero della Giustizia, vuole sapere se la Direzione investigativa antimafia abbia conservato un file di quelle telefonate. Non è una richiesta di routine, il colonnello sarà ascoltato al più presto. D’Agata si sente braccato, la situazione per lui precipita quando viene a conoscenza di una testimonianza che può incastrare.

L’imprenditore Marco Venturi racconta ai magistrati di Caltanissetta di un incontro – una cena in un albergo di Palermo nel quartiere della Kalsa – «dove Giuseppe D’Agata, in maniera furtiva e cercando di nasconderlo alla vista, consegnava una pen drive a Calogero Montante». Le parole di Venturi vengono riscontrate.

Su una delle agende di D’Agata è segnato l’appuntamento: «Palermo, 13 maggio 2014, ore 20.30 cena con Montante e Venturi Hotel Porta Felice». Dall’analisi delle celle dei telefoni dei tre – il colonnello, Montante e Venturi – c’è un’altra prova che, quella sera, fossero tutti lì insieme. L’imprenditore Venturi non conosce il contenuto della “chiavetta”, sono le intercettazioni della voce di D’Agata che svelano la vicenda e orientano gli investigatori sulle telefonate proibite dell’inchiesta stato-mafia.

Tutti dicono tutto al telefono, certi di essere al riparo, lontani da orecchie indiscrete. L’ufficiale parla dal cellulare della suocera, il tributarista Cuva da un’utenza intestata a un generale della Finanza, Montante cambia sembra scheda. Ma nella sala registrazioni della procura di Caltanissetta ascoltano ogni loro sospiro. Si è già mosso anche il generale Esposito, che nelle agende di D’Agata viene indicato con il nome in codice “Sandokan”.

Bucare le indagini

Il capo dei servizi segreti, scrivono i poliziotti in una loro informativa, si dà da fare «per cercare di avere notizie anche per quanto riguardava la vicenda che vedeva coinvolto il D’Agata in Procura a Palermo e relativa alla duplicazione delle intercettazioni Mancino/Napolitano». Quale è l’interesse del capo delle spie italiane (amico di Montante, di D’Agata, di Cuva e di Schifani) a ficcare il naso su quelle telefonate che la Consulta aveva ordinato di cancellare dopo il conflitto di attribuzione fra il Colle e la procura di Palermo? Perché “Sandokan” non informa la procura di Palermo ma, al contrario, pur sapendo, continua ad avere rapporti con il colonnello D’Agata e aiuta Montante a “bucare” la segretezza delle indagini?

La memoria delle pen drive ritrovate nell’appartamento di Milano sarà difficilmente recuperabile, i micro chip sono stati manomessi con perizia dall’ex vicepresidente di Confindustria. Probabilmente, non sapremo mai cosa c’era dentro quelle cinquantadue “chiavette” ritrovate dai poliziotti nell’appartamento di Milano. A meno che qualcuno non si decida a vuotare il sacco.

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