Andrée Ruth Shammah e Giordano Bruno Guerri, guidati da Giulia Merlo, riflettono su memoria, paura, tecnologia e la forza fragile delle parole
Nella sala piena del Teatro Franco Parenti di Milano, il dibattito per “Le Sfide del Domani” dal titolo “Raccontare il mondo”. Sul palco, tre sguardi che più diversi non si può: Andrée Ruth Shammah, fondatrice, direttrice del Teatro Franco Parenti, regista e anima del teatro milanese; Giordano Bruno Guerri, storico fuori da ogni accademia; Giulia Merlo, giornalista di Domani, chiamata a moderare, ma anche a cucire insieme due visioni che si sfiorano e si sfidano.
«La cultura è uno spazio da abitare», dice Merlo aprendo la conversazione, «ma come si costruiscono quegli spazi e, soprattutto, come si riempiono?»
Shammah risponde con un racconto che parte da lontano: «Mi sono avvicinata a un progetto che si occupava degli anziani, ma non quelli bisognosi: si trattava di dare senso e vita alla grande età. L’ho chiamata così, la grande età, ed è diventata per me il simbolo di un tempo da restituire alla vita». Poi il teatro, come luogo che accoglie storie e restituisce senso: «Qui, dove una volta c’erano le docce del quartiere, abbiamo costruito qualcosa che resiste. Non c’è una locandina appesa all’ingresso, perché ogni persona che entra deve sentire che può raccontarsi. Il teatro è spazio vivo, attraversato dalle vite».
Merlo porta la conversazione al libro di Guerri, Storia del mondo. Dal Big Bang a oggi (La Nave Di Teseo). Cosa resta immutato nella storia? Guerri non ha dubbi: «La storia è continuità. Le guerre, le migrazioni, il bisogno di possesso. Tutte le guerre, anche quelle di oggi, sono guerre per la terra. Il Sapiens è sempre spinto dalla stessa fame. La morte, poi, è un altro tratto costante: oggi abbiamo più cure, ma la paura resta. E anche la migrazione è continuità: chi non sta bene, si sposta. È sempre stato così».
Il teatro, osserva Merlo, nasce subito dopo la parola. Ed è la fondatrice del Teatro Franco Parenti a tornare sul valore del contatto umano: «Per stare nel mondo moderno bisogna cercare valori che non cambiano: il corpo, la parola, lo sguardo. In teatro si crea una piccola comunità, ogni sera. Il mondo può crollare fuori, ma lì dentro accade qualcosa che ci tiene umani. Quando si entra in teatro si chiudono i telefoni, ci si guarda negli occhi. Cinquant’anni fa come oggi, il teatro racconta l’uomo nella società».
E la paura? chiede Merlo. È un motore del cambiamento? Guerri ne approfitta per raccontare un episodio personale: un tweet citando Leone XIII – “Il marito è il principe della famiglia…” – è stato travisato per un errore di comprensione. «Non sanno cosa vuol dire ‘non pertanto’. È la perdita della grammatica, del senso delle parole». Poi torna alla grande storia: «Siamo ancora nella rivoluzione scientifica. Ma la prossima sarà quella del contatto con gli alieni. Verranno loro, a trovarci. E noi saremo i selvaggi».
Quanto all’IA, non la teme: «L’abbiamo fatta noi. Ho un ologramma di D’Annunzio al Vittoriale. Gli ho chiesto un parere sul nuovo Papa, e mi ha risposto in modo sensato. L’intelligenza artificiale cerca, seleziona, confronta. Non mi spaventa: mi diverte».
Ma la direttrice lo corregge: «Tu puoi parlare di morte in modo vitale, e di vita in modo mortifero. Non è la parola in sé, ma lo sguardo, il tono, il sorriso. L’IA non può restituire un mezzo tono, un odore, una vibrazione. L’attore può dire la stessa battuta in due modi opposti. Il teatro è questo: differenza, presenza, irripetibilità».
L’incontro si chiude con una domanda sul futuro e la memoria: che cosa sarà dimenticato del nostro presente?
Guerri è ottimista: «Oggi tutto è registrato, tutto resta. Il cloud è la nostra nuova biblioteca. Le civiltà che sono scomparse non erano così avanzate da lasciare tracce. Ma anche allora, chi disegnava un bisonte in una grotta ha lasciato più traccia del miglior cacciatore». La fondatrice del Teatro Franco Parenti invece torna alla sua misura, il quotidiano: «Il teatro muore ogni sera. Rimane forse un edificio, qualche testimonianza. Ma è come quei mandala tibetani: si costruiscono con cura e poi si spazzano via. È questa la lezione. Saper lasciare una traccia anche quando tutto scompare».
«Come i giornali,» conclude Merlo. «Ogni giorno si rifanno da capo, muoiono la mattina dopo. Eppure servono, profondamente». Un lavoro invisibile che tiene viva la memoria.
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