Il braccialetto elettronico non basta a salvare le donne

Douglas Reis Pedroso, 41 anni, è stato arrestato martedì 28 ottobre per il femminicidio di Jessica Stapazzolo Custodio de Lima, la donna di 33 anni accoltellata e uccisa a Castelnuovo del Garda nel Veronese. Reis Pedroso ha chiamato i carabinieri intorno a mezzanotte, manifestando «intenti suicidari», rilasciando poi delle «ammissioni informali» grazie alle quali è stato rinvenuto il corpo della donna; con cui in passato aveva avuto una relazione. L’uomo, secondo la procura, si trovava già sottoposto a procedimento penale per numerosi reati violenti verso Stapazzolo Custodio de Lima: maltrattamenti, lesioni volontarie (messe in atto quantomeno da agosto 2024) ma anche violenza sessuale a danno della sorella della donna uccisa. Reis Pedroso era stato sottoposto al divieto di avvicinamento dal 23 aprile 2025. La misura di deterrenza del braccialetto elettronico, invece, era stata messa in campo solo il successivo 19 maggio «per espressa comunicazione da parte di Fastweb Spa». Al momento dell’omicidio, però, il braccialetto non era al polso di Reis Pedroso. Violenza e braccialetti elettronici «Era palesemente pericoloso». Queste le parole di Aurora D’Agostino, legale del Centro veneto progetti donna di Padova, che spiega come la procura avesse aperto un procedimento ma «senza misure cautelari, era intervenuto il questore con l’ammonimento». Una prassi molto «caldeggiata dalle questure come “ottimo sistema di prevenzione” nei confronti delle donne per i casi di violenza». Ma, spesso, non funziona. Come in questo caso: «Stiamo parlando di un soggetto molto violento, dedito all’alcol e difficilmente controllabile». D’Agostino ricorda che l’uomo, dopo le prime misure, ha infatti aggredito nuovamente e in modo brutale Stapazzolo Custodio de Lima, «e lì sono state emesse le misure cautelari con divieto di avvicinamento, di comunicazione e di dimora nel comune dove vive la donna, con l’ausilio del braccialetto elettronico». In questo caso la dinamica sembra questa: «Si è tolto il braccialetto, l’ha uccisa e poi è andato lui dai dalle forze dell’ordine a dire che si sarebbe suicidato per quello che aveva fatto», spiega D’Agostino. Questo, per D’Agostino, significa che il dispositivo elettronico «si può togliere senza che nessuno se ne accorga, che il divieto di avvicinamento si può eludere». Anche Mariangela Zanni, presidente del Centro veneto progetti donna e consigliera D.i.Re, ravvede delle problematiche rispetto al funzionamento del dispositivo: «Abbiamo visto che non basta nei casi ad alta gravità dove l’obiettivo di mantenere il controllo da parte dell’autore della violenza continua ad essere pressante ed aggressivo». Secondo Zanni, negli ultimi anni, si è rafforzata la parte del sistema che penalizza gli autori, introducendo nuovi reati, «alcuni molto importanti, per esempio il reato di diffusione non consensuale di materiale intimo». Ma questo non ha intaccato in alcun modo «l’incidenza del fenomeno né in termini di violenza né per quanto riguarda i femminicidi. Perché interveniamo quando il danno è fatto». Un guasto istituzionale, non tecnico: il femminicidio di La Spezia e la protezione che continua a mancare alle donne Vittimizzazione secondaria e famiglia D’Agostino, inoltre, trova grave anche un passaggio del comunicato della procura che sembra alimentare una forma di vittimizzazione secondaria, il fenomeno che alimenta pregiudizi e stereotipi sessisti e sposta la responsabilità dalla persona che ha commesso la violenza alla persona che l’ha subita. È il passaggio in cui si legge che anche Stapazzolo Custodio de Lima non aveva con sé l’apparato ricevitore, ritrovato “nascosto” – queste le parole utilizzate – nel garage della madre. «Perché scrivere nascosto? Lui non aveva il braccialetto e nessuno se n’è accorto. Perché dobbiamo sempre usare queste parole, come se ci fosse una corresponsabilità del fatto che sia stata ammazzata perché lei non ha seguito le procedure. Siamo oltre al limite del tollerabile». Le donne vengono uccise nella maggior parte dei casi da un componente della famiglia; quasi sempre un compagno attuale o passato. Per Zanni, infatti, «non siamo di fronte ad un’emergenza ma ad un fenomeno strutturale e sistemico, che si sviluppa all’interno delle relazioni di coppia spesso fin dall’inizio con segnali di controllo e dominio e che vede la sua rappresentazione estrema nel femminicidio». Nel lavoro per il contrasto alla violenza è necessario il lavoro di rete. Per questo è importante attivarla anche quando vengono previste le misure di protezione: «È fondamentale la valutazione del rischio attraverso strumenti che possono prevedere, nei casi più gravi, anche l’accoglienza delle donne in strutture protette», con la presenza di presidi fondamentali come i centri antiviolenza. In città, secondo l’ex sindaco di Castelnuovo del Garda, Domenico Dal Cero, era stato aperto uno sportello comunale, «ma poi la nuova amministrazione lo ha chiuso». Denunce, storie e “contesto”: così si contano i femminicidi Reati e propaganda Bisogna consigliare alle donne di rivolgersi ai centri antiviolenza «dove possono ottenere ascolto senza giudizio e pensare insieme alle operatrici anche come mettersi al sicuro». Ma poco è stato fatto sul fronte della prevenzione, da parte delle istituzioni. Per Zanni «i fondi sono stati sempre insufficienti» ed hanno visto un «calo drastico» negli anni. Fino ad arrivare, con l’attuale governo, alle «censure sulle presenze di esperte nelle classi elementari e medie. Se non prevediamo che nelle scuole si parli di educazione alle relazioni, alla sessualità e al consenso, difficilmente ci sarà un cambiamento. Non possiamo pensare di risolvere la questione in famiglia, perché è proprio lì che si perpetuano le violenze e i modelli sbagliati». C’è poi il dato politico: come Giorgia Meloni aveva preannunciato, il governo entro il 25 novembre vuole far approvare anche alla Camera il disegno di legge che introduce il reato di femminicidio. «Alle donne non interessano gli ergastoli», dice D’Agostino, «ma che vengano messi soldi sulla prevenzione, sulla formazione degli operatori e sanzioni per chi non ha tutelato le persone offese». Inoltre «bisogna esigere delle forme di prevenzione finanziate: siamo stufe delle leggi simbolo con le sanzioni punitive senza soldi stanziati, che agiscono sempre ex post facto ai femminicidi». Oltre i femminicidi: quella violenza che la comunità non legge