Sabrina Prioli è una lottatrice. A incontrarla oggi, non si conoscesse la sua terribile storia di violenze ripetutamente subite in Sud Sudan mentre era lì come cooperante, resterebbe solo l’impressione di una donna profondamente radicata nelle sue convinzioni umanitarie e determinata a raggiungere obiettivi per sé e per gli altri e riprendersi la vita. Nel lungo percorso di riabilitazione di sé, però, non le è toccato solo affrontare i fantasmi dello stupro, la tortura, la sensazione di essere a un passo dalla morte. Ha dovuto anche fare i conti con la solitudine e l’abbandono da parte di tutte le istituzioni che si sarebbero dovute occupare di lei. A cominciare da quelle italiane.

L’arrivo a Juba

Dopo un lungo periodo in Sud America, Sabrina, impiegata dalla ong americana Usaid come esperta di pianificazione di progetti, è stata inviata a Juba, la capitale del Sud Sudan. Il paese più giovane del mondo – indipendente dal Sudan dal 2011 dopo una lunga lotta che univa a cause economiche motivi etnico-religiosi (la maggioranza è cristiana a differenza del Sudan a netta prevalenza islamica) – è entrato da subito in una spirale di violenza che ne ha fatto, a partire dal 2013, una delle peggiori emergenze umanitarie del pianeta assieme a Siria e Congo: su una popolazione di poco più di 11 milioni di abitanti, sono circa 4,5 milioni i profughi esterni e interni e 8 milioni gli individui in emergenza alimentare. Secondo l’Unhcr, 3 bambini su 4 non frequentano la scuola: il tasso più alto al mondo. Ovviamente al drammatico bilancio vanno aggiunte decine di migliaia di morti e molti più feriti.

Sabrina si è trovata a Juba in uno dei momenti di maggiore recrudescenza della guerra civile, l’estate del 2016. Per garantire la sua sicurezza e quella dei suoi colleghi, viene fatta alloggiare al compound Terrain, certificato «sicuro» dal dipartimento di Sicurezza dell’Onu, lo stesso che ha dichiarato safe la strada, percorsa dall’ambasciatore Luca Attanasio in Congo il 22 febbraio scorso, dove è stato ucciso.

L’attacco

L’8 luglio sono iniziati gli scontri tra le forze governative Spla e le forze di opposizione Spla/io e attorno al compound si udivano rumori di mitragliatrici, mortai e granate. Gli operatori si sono rifugiati all’interno dell’unico edificio in cemento armato e sono rimasti lì per diversi giorni senza che nessuno della missione Onu (Unmiss) né dalle ambasciate, si interessasse di loro: questo sebbene gli operatori umanitari comunichino costantemente con gli uffici Onu e delle ong di riferimento oltre che con le rispettive ambasciate, inclusa la nostra ad Addis Abeba (non c’è in Sud Sudan, ndr). Poi, dopo 3 giorni di lockdown senza risposte, l’inevitabile orrore. «L’11 luglio i soldati si sono introdotti nell’ala del compound in cui eravamo asserragliati. Subito hanno sparato e hanno ucciso un giornalista sud sudanese, gambizzato un collega americano e si sono dedicati a violentare le donne presenti».

Sabrina è stata stuprata da cinque soldati sotto minaccia di mitra, percossa ferocemente, torturata e quasi soffocata con una bomboletta di Ddt. Ma l’agonia non è finita qui.

«Nel pomeriggio dell’11 la National Security ha liberato gli ostaggi ma io e altre due colleghe siamo state inspiegabilmente abbandonate lì per altre 16 ore, accanto al cadavere martoriato del giornalista a cui avevano sparato in testa». In questo lasso di tempo Sabrina è vittima di altri due stupri e torture. La mattina dopo trova un cellulare per puro caso e riesce a chiamare la sicurezza di Usaid che finalmente invia effettivi dell’esercito a evacuare le cooperanti. «Con tutta probabilità i nostri liberatori sono gli stessi che avevano attaccato il compound».

Istituzioni latitanti

Archiviato un capitolo drammatico della propria vita, però, Sabrina deve aprirne un altro fatto di ulteriori umiliazioni e caratterizzato da una gravissima latitanza da parte della ong per cui lavorava, dell’Onu e, soprattutto, dell’Italia. «Il 12 luglio sono stata evacuata dal Sud Sudan attraverso un aereo americano. Ho ricevuto le prime cure in Kenya e sono tornata in Italia facendo il viaggio da sola, sotto shock e ferita. Al rientro non sono stata ricevuta da nessuno e non mi è stato dato alcun appoggio medico né legale. Ho sporto denuncia alla procura della Repubblica ma il caso è stato archiviato. Fino a novembre 2020 quando per la prima volta, dopo infinite richieste, la Farnesina mi ha contattata e ha deciso di inviare note verbali al governo del Sud Sudan (ma l’iniziativa, per mancanza di un sostegno convinto da parte di Roma, non ha prodotto alcun risultato significativo, nemmeno una risposta da Juba, ndr). Non sono mai stata ricevuta, neanche ascoltata». In un incredibile precipitare degli eventi, il caso di Sabrina Prioli assume tinte grottesche per quanto attiene alle risposte attese e mai ottenute.

Il 6 settembre 2018, la corte marziale sudsudanese ha condannato due soldati all’ergastolo, altri otto a pene dai 7 ai 14 anni di carcere. Ad assicurarsi un risarcimento, però, è stata solo la società inglese proprietaria del compound che ha ottenuto 2,5 milioni di dollari. Alle vittime, un ridicolo rimborso spese di 4mila dollari. Alla beffa si è aggiunto l’oltraggio: non è possibile fare appello, perché fonti ufficiali sudsudanesi dichiarano che il file del processo è andato «perduto».

Se si eccettua l’appoggio logistico fornito dall’ambasciata italiana di Addis Abeba a Sabrina in transito verso Juba nell’agosto del 2017 per testimoniare al processo (unica vittima presente), l’Italia è totalmente assente. Non c’era durante l’attacco e dopo non c’era ad assicurare i costi sanitari, legali, neanche a pagare le spese di viaggio del drammatico ritorno della Prioli sul luogo del delitto. Oltre che moralmente è del tutto inadempiente in termini giuridici agli articoli della Convenzione di Istanbul e della Convenzione contro la tortura che ha ratificato.

Tornare a lottare

Inascoltata, abusata ripetutamente nel fisico e nella psiche, annichilita dalle violenze e dall’indifferenza, finita in un gorgo da cui sembra impossibile riaffiorare in superficie, Sabrina, per quanto sia difficile crederlo, è riemersa. La sua lotta, dopo un lungo periodo di psicoterapia, è ripresa e a incontrarla oggi si ha la sensazione di essere di fronte a una solida roccia. In Italia per il suo caso, sono state presentate due interrogazioni parlamentari, una nel 2018 e una nel febbraio scorso.

«Ora sono life-coach e aiuto tantissime donne ad affrontare le violenze di cui sono state oggetto e a trovare in sé la forza di ripartire. Ho combattuto sempre da sola, sono vittima di stupro e di tortura non posso accettare il silenzio delle istituzioni. Sono una cittadina italiana, ho testimoniato con coraggio in una corte marziale in Sud Sudan, merito di essere ascoltata e sostenuta nella mia lotta non solo per i miei diritti ma per quelli di tutte noi donne vittime di violenza».

Sabrina è autrice de Il viaggio della fenice un memoir che ripercorre la sua drammatica esperienza a Juba nel 2016.

 

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