Produrre birra in  Africa è un’attività molto vantaggiosa: il continente produce quasi il 21 per cento degli utili di Heineken, benché il fatturato e il volume di birra si attestino entrambi a poco più del 14 per cento del totale. Il continente è considerato particolarmente redditizio anche dai principali avversari di Heineken. Una delle cause è la scarsa concorrenza. Le big four (AB InBev, Castel, Heineken e Diageo) controllano il 93 per cento del mercato africano – e in effetti, vista la collaborazione tra AB In-Bev e Castel, si dovrebbe parlare di big three.

 Anche il mercato mondiale della birra è dominato da un numero ridotto di attori, ma le top 3 (AB InBev, Heineken e Carlsberg) ne controllano «solo» la metà. Inoltre, in numerosi mercati devono vedersela con forti concorrenti nazionali o regionali che in Africa sono invece assenti.

In Nigeria, per molti anni, Heineken e Diageo si sono attenute a un accordo informale evitando di mettersi reciprocamente i bastoni fra le ruote. 

All’inizio del secolo, quando SAB e Diageo furono coinvolte in una dura lotta di concorrenza nell’Africa orientale, trovarono una soluzione semplice: SAB lasciò il Kenya a Diageo e in cambio ottenne un quasi-monopolio in Tanzania.

Ciascuna azienda acquisì una quota minoritaria nel birrificio dell’altra, e il solo sconfitto fu il consumatore di birra locale che continuò a pagare il prezzo più alto. Anche in Burundi e in Ruanda, per molto tempo Heineken è riuscita a ostacolare la concorrenza con l’aiuto delle autorità.

Il risultato della scarsa concorrenza è che spesso in Africa una birra costa più che nei Paesi Bassi, non solo in considerazione del potere d’acquisto ma anche in termini assoluti. In Africa non ho mai visto una cassa da ventiquattro bottiglie di birra a dieci-dodici euro, come si vede nei supermercati olandesi. Le aziende giustificano l’alto rendimento sottolineando i rischi legati agli investimenti in Africa.

In realtà, secondo la società di consulenza McKinsey, oggi i rischi in Africa sono gli stessi o appena superiori a quelli dei Paesi sviluppati, purché li si distribuisca su più mercati. In un determinato Paese possono andare storte molte cose, ma visto che i legami economici e politici tra le varie nazioni sono in genere ridotti, una crisi su ampia scala appare poco probabile. 

Contro le bevande locali 

Mentre i venditori si danno battaglia per ogni bar, ai piani alti ci si rende conto che i guadagni maggiori proverranno dai mi lioni di consumatori di vino di palma, di birra di sorgo e di altre

bibite locali. I manager parlano di queste bevande con sufficienza, ma le considerano più come concorrenti che come esempi di patrimonio culturale o di folklore. Nel quadro di questa lotta, Heineken fa valere i presunti effetti benefici del proprio prodotto: la birra chiara non è solo più buona, ma anche più sana e sicura grazie a un controllo costante della qualità. 

L’industria ama sottolineare i rischi delle bevande distillate illegalmente, come la chang’aa in Kenya (soprannominata «kill me quick»: uccidimi velocemente), che si dice possa contenere

tracce di contaminazioni di liquami, di ratti e scarafaggi.

Ogni anno la chang’aa fa diversi morti, talvolta anche decine in un colpo solo, e capita che qualcuno perda la vista dopo averla consumata. Heineken sostiene di avere a cuore la salute dei consumatori. «Come primi produttori di birra, abbiamo una responsabilità», ha dichiarato Roland Pirmez in un’intervista concessa poco prima di essere nominato direttore di Heineken Africa.

«Dobbiamo investire nei magazzini e nella rete di trasporto per fare in modo che sia la nostra birra – e non una bevanda illegale, più forte e pericolosa – a raggiungere la gente. Vietare l’alcool non è una soluzione: si tornerebbe a consumare bevande distillate in casa.»

In realtà la maggior parte delle bevande locali, come la tradizionale birra di sorgo, contiene più vitamina B e C, ferro e potassio della birra chiara, e meno calorie, alcool e sale.

Inoltre non si aggiunge zucchero, come invece si fa con la birra industriale prodotta in Africa. Nel richiamare l’attenzione su intrugli velenosi come la chang’aa, i produttori di birra assimilano scientemente tutte le bevande tradizionali ai prodotti più pericolosi che esistano.

Bersaglio giovani

I giovani hanno sicuramente un’importanza particolare agli occhi dei produttori di birra. Basta guardare la piramide demografica di un qualunque Paese africano per capire perché l’industria abbia così tante aspettative per il futuro. La lotta per guadagnarsi il loro favore comincia presto. In Nigeria e in Congo, ad esempio, Heineken fa dipingere il proprio logo sulle scuole che l’azienda ristruttura nel quadro di un programma di beneficenza. Non appena i bambini imparano a leggere, sanno chi devono ringraziare. 

«L’industria dell’alcool prepara i bambini», sostiene Bill Sinkele, fondatore dicun centro di disintossicazione in Kenya. Sinkele ha scoperto che spesso i ragazzini hanno una marca preferita molto prima di raggiungere l’età legale per consumare alcool.

Nell’est della Nigeria non è raro che gli adolescenti bevano prima di andare a scuola, come ha osservato l’OMS. La birra fa parte del rituale mattutino di una ragazzina di nome Alfa, mentre altri bambini mettono una Star nello zaino. Il padre della quattordicenne Esther le dà spesso una birra quando torna a casa. «Protegge dalle malattie», le dice.

Un’indagine ha rivelato che i ragazzi africani sono il target principale delle campagne marketing dell’industria della birra, che fa leva sui loro interessi. Nigerian Breweries ne dà un esempio plastico. L’azienda organizza sfilate di moda nei campus e serate di ballo gratis, oltre a sponsorizzare eventi musicali e sportivi. Prima si conquistano i consumatori, maggiore è la probabilità che sviluppino una fedeltà duratura.

In occasione di un concorso nazionale di scrittura sponsorizzato da Nigerian Breweries, un importante manager si è presentato in una scuola secondaria in qualità di professore ospite. Secondo un corrispondente ha promesso di continuare a sponsorizzare il concorso per il quinquennio successivo. Nel frattempo beveva «con grande eleganza» una bottiglia di Gulder. «I bambini devono aver avuto l’impressione che si debba bere Gulder se si vuole riuscire nella vita.»

Nelle città è impossibile sfuggire alla violenza pubblicitaria, e anche in campagna la situazione tende a peggiora re, come ho potuto constatare durante i miei viaggi. Anche lì ci si imbatte in manifesti o grandi bottiglie pubblicitarie di plastica. Si vedono ovunque bar dai colori delle varie marche di birra. Insieme alle compagnie telefoniche, i produttori di birra conducono le campagne più aggressive, anche là dove Heineken non ha rivali.

Diverse ricerche in Europa e negli Stati Uniti dimostrano che la pubblicità contribuisce ad aumentare i consumi, soprattutto tra i nuovi bevitori.

In Africa questa influenza forse è maggiore, perché le opportunità pubblicitarie sono pressoché illimitate e il target è in media meno istruito, perciò più facilmente orientabile. Heineken non ci vede niente di male.

«Gli africani sono indipendenti e devono decidere da soli se comprare una birra», dice un ex espatriato. «Sfruttiamo il fatto che agli africani la birra piace.» A suo dire Heineken si adatta alla cultura locale e sottolinea che molte campagne sono concepite dalle agenzie pubblicitarie del posto.

Heineken si pone alcuni limiti nel proprio codice pubblicitario. Per esempio le pubblicità non possono suggerire l’idea che un certo marchio di birra contribuisca ad accrescere lo status o il successo sociale, o che la birra dia forza o migliori la salute e le prestazioni sessuali. L’azienda sostiene anche di non rivolgersi a target di gruppi vulnerabili.

Nella pratica, però, Heineken fa di tutto per collegare questi valori positivi ai propri marchi.

Il marchio Mützig è «il sapore del successo», mentre in Nigeria la Legend è associata al sesso. Anche il convegno di cui abbiamo parlato è una chiara violazione del codice con cui Heineken si impegna ad astenersi dal promuovere gli eventuali effetti benefici della birra sulla salute. L’azienda non può suggerire ai propri clienti di bere birra per stare bene. 

E i gruppi sensibili, come i giovani e i minorenni, non sono affatto risparmiati. Anzi, ricevono un’attenzione speciale. 

I ricercatori David Jernigan e Isidore Obot hanno concluso: «Se i giovani di molti Paesi sopravvivono all’HIV, ai conflitti armati e alla corruzione endemica, le strategie di marketing ben strutturate e onnipervasive presentano loro l’alcool – e in particolare la birra – come un simbolo di successo e di virilità e un sinonimo di coraggio ed eroismo.»

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