Mentre il dibattito pubblico italiano si è concentrato sul valutare l’andamento dei piano vaccinale anti Covid-19, un altro problema di primaria importanza nella gestione della pandemia è finito in secondo piano. Si tratta dei tamponi, il principale strumento a nostra disposizione per conoscere l’andamento dell’epidemia e per combatterla.

Non solo, in Italia se ne continuano a fare pochi rispetto ai paesi più virtuosi, ma questa limitazione non viene apertamente riconosciuta dalle autorità e le decisioni più importanti su come affrontare l’epidemia vengono ancora prese sulla base di questo strumento che non riusciamo a usare perfettamente.

Le promesse

All’inizio novembre, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il commissario straordinario all’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri, avevano promesso che presto l’Italia sarebbe arrivata a effettuare 350mila tamponi al giorno.

Questa cifra non è mai stata raggiunta. Novembre, il mese migliore fino a ora, ha visto una media di circa 200mila tamponi al giorno. Ma a partire dalla metà del mese, il numero di tamponi analizzati ogni giorno non ha fatto che calare. Dal record di 253mila tamponi analizzati il 13 novembre, siamo scesi fino al record negativo di meno di 60mila il 27 dicembre. Dall’inizio di dicembre in poi, il numero di tamponi analizzati non è mai più tornato a superare i 200mila al giorno.

La situazione in Europa

La quantità dei tamponi effettuati in Italia impallidisce se confrontata con quelli del campione europeo in fatto di test, il Regno Unito. Nel periodo delle ferie natalizie, le autorità sanitarie britanniche hanno raggiunto il record i tamponi effettuati, con una media di 400mila al giorno e punte superiori a 450mila.

Il Regno Unito è una sorta di eccezione in Europa, ma l’Italia non fa una buona figura nemmeno se comparata agli altri grandi paesi del continente. Rapportando il numero di test alla popolazione, abbiamo quasi sempre fatto meno test di Francia e Spagna. Sorprendentemente la Germania è uno dei pochi paesi ad aver fatto un numero di test paragonabile al nostro.

Ma in Germania la riduzione dei test è stata spiegata pubblicamente dalle autorità sanitarie. Lo scorso novembre, il Robert Koch Institute (l’equivalente del nostro Istituto superiore di sanità) ha detto che fino a quel momento si erano fatto molti più test rispetto alle capacità dei laboratori di analizzarli e si erano così accumulati enormi quantità di arretrati.

Per evitare di ingolfare ulteriormente i laboratori, l’istituto ha quindi deciso di ridurre il numero di test e concentrarsi sul tracciamento dei contatti e dei focolai. Le autorità sanitarie hanno detto di essere coscienti che in questo modo il numero di casi individuati sarebbe stato più basso, ma questo non ha impedito al governo tedesco di accorgersi della recrudescenza dell’epidemia e di inasprire le misure di contenimento, contribuendo così a fare della Germania un caso virtuoso, almeno in Europa, nella lotta al virus.

Lentezze italiane

In Italia le cose sono andate diversamente. La riduzione dei tamponi non è mai stata spiegata pubblicamente e il governo, sostenuto da una maggioranza divisa e in continuo scontro con le regioni, ha agito lentamente. La Germania ha imposto un lockdown quando i nuovi casi erano 17mila al giorno, l’Italia ne ha imposto uno per certi aspetti meno rigido quando erano arrivati ormai a 30mila. Si tratta all’incirca dello stesso numero che pochi giorni prima aveva spinto il governo francese a imporre un lockdown nazionale ben più duro del nostro. Ma la Francia, in quei giorni, faceva circa il 50 per cento dei tamponi più dell’Italia e individuava una percentuale ben superiore di nuovi contagi.

Oggi le autorità italiane hanno due strade a disposizione. Il presidente Conte, il commissario Arcuri o lo stesso Istituto superiore possono spiegare cosa è andato storto nel piano di aumento dei tamponi e cercare di rimediare. Oppure possono ammettere che la capacità italiana di testing è limitata e che sarà impossibile accrescerla ulteriormente nel breve periodo. Il corollario necessario di questo discorso, però, è ammettere anche che i dati che abbiamo sulla pandemia sono incompleti e che quindi servirà maggiore prontezza e decisione nel chiudere quando le cose sembreranno mettersi male. Come hanno fatto in Germania.

 

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