Se gli scaffali dell’economia abbondano di saggi su disuguaglianze e povertà la ragione è sotto gli occhi: si tratta del brutto male che affligge il mondo, Occidente compreso col Covid-19 a esasperare distanze intollerabili già da prima. Meno scontato che a interrogarsi sul divario tra il vertice e la base della piramide sociale sia un numero inferiore di analisti e studiosi. Quasi che affrontare il primo problema, la miseria di troppi, non debba implicare uno sguardo e l’impegno sul secondo fronte, la ricchezza di pochi.

Anche se non per tutti è così e quel che per i ricchi è il problema della povertà, per i poveri è il problema della ricchezza. L’argomento si è riproposto con toni vivaci dopo che il segretario del Pd, Enrico Letta, ha proposto una revisione della tassa di successione allo scopo di riversare le risorse ottenute in una dote disponibile per i giovani alle prese con le prossime scelte di vita (formazione, tirocinio, attività d’impresa).

Nel caso specifico si tratta di un’idea avanzata a suo tempo dal Forum Disuguaglianze e Diversità e ripresa dalla sinistra interna al Pd nel programma su Radicalità per Ricostruire. Pronta e secca è arrivata la risposta del capo del governo, Mario Draghi: «Non è il momento di chiedere ma di dare», questo più o meno il senso anche se un attimo dopo il premier ha tenuto a dire che nel quadro di una riforma fiscale complessiva ogni ipotesi avrebbe riscosso l’attenzione dovuta. Il punto è che proprio lì, sulla visione d’insieme le distanze tra Pd e Lega paiono talmente marcate da rendere complicata la produzione di una sintesi.

Non per caso, giorni fa Salvini si era spinto a chiedere che il governo lasciasse perdere le grandi riforme (giustizia, pubblica amministrazione, fisco) perché a quelle ci avrebbero pensato loro appena trasferito Draghi al Quirinale e vinto le prossime elezioni. Curioso modo di intendere il timing scrupoloso che l’Europa prescrive a tutti i paesi, non solo il nostro, per accedere alle quote dei finanziamenti previsti.

Il dibattito sul dopo

Allora si deve dire che anche l’uscita del leader del Pd appare un fuor d’opera? Una fuga in avanti tesa più a marcare un territorio che non tagliare un traguardo? La mia risposta è no, non si tratta di quello.

Al contrario la scelta di Letta può essere intesa in una doppia ragione. Da un lato restituire al dibattito sul “dopo” e su un impianto più equo del nostro modello sociale quella concretezza o materialità che sola è in grado di ancorare le scelte di governo ai bisogni degli ultimi della fila, e che nell’Italia di oggi quegli ultimi coincidano in buona misura con giovani e donne dovrebbe risultare scontato.

Dall’altro affermare un’autonoma elaborazione nell’agenda delle riforme da parte della principale forza della sinistra nulla toglie al sostegno leale al governo, ma aiuta a tracciare una strategia più ambiziosa, e aggiungo corretta, del cambio di paradigma necessario dopo le due peggiori crisi (2008 e 2020) della nostra storia recente.

In questo senso parlare della tassa di successione per com’è strutturata in Italia equivale a descrivere un mezzo paradiso fiscale. Nel caso nostro applichiamo un’aliquota, il 4 per cento, tra le più basse del continente e distante undici punti dalla media dei paesi Ocse.

Per capirci, in Germania quella stessa aliquota vale il 30 per cento e in Francia sale al 45. L’ipotesi di un prelievo sopra i 5 milioni di euro (personalmente avrei fissato quell’asticella cinque livelli più in basso, a un milione di euro) non pare un esproprio, soprattutto se consideriamo il sacrificio limitato che sarebbero chiamati a sopportare i beneficiari diretti di quella dote.

Ora, è vero che proprio la famiglia italianamente intesa è venuta svolgendo col tempo una funzione di supplenza del pubblico. Anche in questo caso un paio di numeri illuminano: a metà anni Novanta il valore di eredità e donazioni risultava essere l’8,4 per cento del Pil. Cinque anni fa quel dato era praticamente raddoppiato e costituiva quasi per un quinto il reddito disponibile delle famiglie. L’esito di una tendenza simile è una società dove chi ha tende ad aumentare il suo avere e chi parte da dietro sembra condannato a rimanervi.  

Il fisco per un mondo nuovo

Su un punto di fondo Draghi ha ragione: ogni seria riforma fiscale deve rispondere a una visione complessiva, non può somigliare a un patchwork multicolore. Assieme a questo l’altra regola che si impone è il legame tra quella riforma e il tempo storico che la giustifica.

La nostra fiscalità mostra oggi tutte le sue pecche e ritardi precisamente su questo piano: l’essere stata pensata e costruita in un contesto diverso da quello di ora, con una centralità del prelievo sui redditi e sui consumi a cui si è venuto sommando quello sulle rendite finanziarie, ma in misura minore anche per non scoraggiare l’acquisto dei titoli del nostro debito pubblico.

Tradotto, il nostro è un sistema fiscale agganciato a Irpef e Iva, a imposte dirette e indirette, con una imposizione locale basata sui patrimoni immobiliari, dall’Ici all’Imu.

Se oggi diventa urgente aggredire il nodo di un nuovo patto è perché quel sistema non è più in grado di svolgere la propria funzione redistributiva su una componente decisiva nella produzione della ricchezza. Questione legata al cambio di scenario nell’economia con un capitalismo maturo sempre meno fondato su una dimensione fisica, intesa come materiale, agganciata ai confini nazionali.

È il nodo di una tassazione giusta per le multinazionali della rete e del digitale su cui molto si parla. Un secolo fa la scelta fu di far pagare le tasse ai pochi grandi gruppi mondiali in base ai principi della “stabile organizzazione” che avevano nei vari paesi e sui cosiddetti “prezzi di trasferimento” delle loro merci, in una dinamica dove, ancora una volta, risultava dominante la dimensione materiale.

Dunque, i sistemi fiscali erano pensati per un mondo di merci e beni reali. Questa impostazione, già superata prima della pandemia, tanto più adesso chiede un cambio del paradigma citato all’inizio. Questo perché non da qualche semestre, ma da qualche decennio, la generazione di reddito e ricchezza si è spostata dall’economia materiale a quella finanziaria. 

Serve, insomma, una revisione dell’idea stessa di fiscalità pensando a una tassazione che sia capace di esercitare la propria azione sull’immaterialità, su contribuenti che anche in questi mesi – anzi, soprattutto in questi mesi – hanno fatto enormi profitti e pagato imposte per molto meno del 3 per cento dei loro fatturati. 

Come essere progressivi

Sono solo alcuni esempi, altri andrebbero fatti sulla possibilità di una rimodulazione dell’Iva per i beni di lusso, su una revisione dell’Irpef in direzione di una maggiore equità, sulla urgenza di disboscare la giungla di oltre settecento tra detrazioni e deduzioni che hanno finito col premiare singole corporazioni e categorie privilegiate per finire con una effettiva tassazione ambientale, questa sì di matrice europea, finalizzata a favorire la conversione verso una sostenibilità del modello produttivo.

Tutto ciò non può che transitare, appunto, da una riforma fiscale nel segno della progressività, valore scolpito all’articolo 53 della Costituzione e che negli ultimi quindici anni governi di vario colore hanno colpevolmente accantonato. In altre parole l’antica formula “pagare tutti per pagare meno” va precipitata nel cuore della crisi e non consente scappatoie. Lo Stato deve chiedere e in cambio offrire, in una relazione senza ombre e illiceità, da una parte e dall’altra. Assieme a ciò in una democrazia matura ogni discorso sull’equità fiscale deve misurare squilibri e disuguaglianze di partenza. Ma appunto qui si inserisce la proposta di rivedere criteri e aliquote della tassa di successione.

Nella fatica non più rinviabile di dotare anche noi di un rigore dell’equità che, sul fronte fiscale, sposi la dignità di ogni persona. Ostinarsi a dire che le tasse non si toccano ha come ricaduta che tutto quanto si sta facendo e si farà per uscire dalla crisi si fonderà su nuovo debito, ma anche sull’altra sponda atlantica, da Joe Biden a Janet Yellen, non pare questa la strada dei progressisti. Insomma, con buona pace della destra, fuori e dentro il Pd, non si sta parlando di una rivoluzione, ma del minimo sindacale per dirsi ancora di sinistra.

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