Chi ha cinquant’anni oggi è andato a scuola quando ancora non si parlava di cambiamento climatico, l’astronomia non conosceva esopianeti né telescopi in orbita, in biologia non era stata ancora avviata la mappatura del genoma umano. Sono solo esempi. Ma calo demografico e nuove tecnologie consentono di cogliere un’opportunità
Nella discussione su presente e futuro della scuola italiana c’è un convitato di pietra di cui si parla pochissimo: la popolazione adulta, che a scuola non va più, ma che di scuola avrebbe enorme bisogno. Certo, l’idea di lifelong learning – l’apprendimento nell’arco di tutta la vita – è ben presente nei documenti ufficiali, soprattutto a livello internazionale, almeno a partire dalla Conferenza di Lisbona del 2000. E certo, in quei documenti si riconosce l’esigenza di strategie specifiche per la formazione degli adulti nella società dell’informazione e della conoscenza: una società che richiede competenze, in particolare per quanto riguarda il mondo digitale e l’evoluzione dell’ecosistema comunicativo, in gran parte nuove. Ma concretamente sul fronte del lifelong learning si fa molto poco.
Nel nuovo mondo
Il tema, si badi, non è quello dell’aggiornamento professionale, cioè delle nuove conoscenze e competenze richieste da ogni specifico ambito di lavoro: in quel campo qualcosa viene fatto, perché sarebbe impossibile non farlo. Il tema è quello delle competenze di base, e in particolare delle competenze di cittadinanza. Competenze di cui abbiamo tutte e tutti bisogno nella nostra vita quotidiana, ma di cui spesso sottovalutiamo sia l’importanza, sia la complessità: dalla selezione di fonti informative affidabili alla protezione della privacy, dalla conoscenza e dall’uso dagli strumenti di rete (inclusi i social) alle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, dal funzionamento dell’economia e della finanza al panorama geopolitico che ci circonda, dalle nuove scoperte scientifiche al cambiamento climatico.
La sfida, infatti, non viene solo dal digitale: quanto sanno – e quanto capiscono – dei cambiamenti geopolitici degli ultimi decenni generazioni che hanno studiato storia (spesso fermandosi alla Seconda guerra mondiale) prima dell’11 settembre o addirittura prima della caduta del muro di Berlino? Chi oggi ha cinquant’anni, e ha spesso posizioni lavorative di responsabilità, è andato a scuola quando ancora non si parlava di cambiamento climatico o di energie rinnovabili, l’astronomia non conosceva esopianeti né telescopi in orbita, in biologia non era stata ancora avviata la mappatura del genoma umano, l’ultima pandemia ad aver avuto conseguenze globali drammatiche era stata la Spagnola, di questioni di genere si parlava poco e male, i testi letterari e i movimenti artistici più recenti a cui si faceva riferimento erano – nei casi migliori – quelli degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Sono solo esempi, ma mostrano che viviamo in un mondo di cui troppo spesso sappiamo pochissimo, perché l’istruzione che abbiamo avuto da giovani si riferiva a un mondo molto, molto diverso rispetto a oggi, e perché – nonostante la varietà del panorama mediatico – l’informazione, non di rado generica e superficiale, non si trasforma da sola in conoscenza. Per quanto ricca di contenuti informativi e formativi possa essere la rete (se la sappiamo usare bene), senza occasioni e strumenti affidabili di studio e approfondimento, e senza politiche formative adeguate, cambiamenti essenziali nel mondo in cui viviamo diventano rumore di fondo che siamo incapaci di comprendere e a cui siamo incapaci di reagire in maniera ragionata ed efficace.
Investire nella formazione
Si può fare qualcosa per colmare questo deficit cognitivo e di competenze, che rappresenta un danno enorme anche per la nostra capacità di affrontare le sfide economiche, lavorative, sociali, culturali che abbiamo davanti, tanto più in un paese in cui l’età media è alta e la vita lavorativa si è allungata?
Una risposta positiva a questa domanda è non solo auspicabile ma possibile, sempre che la si voglia dare. Ci sono due fattori che concorrono a creare un’opportunità forse unica:
1. Le conseguenze del calo demografico portano a una progressiva riduzione nel numero delle studentesse e degli studenti: fra dieci anni, si prevede che le persone in età scolare saranno quasi un milione e mezzo in meno rispetto ad oggi. Un dato che, se vogliamo avere un sistema di welfare funzionante, non solo potrà ma dovrà essere in parte corretto dall’apporto di nuova cittadinanza derivante dall’immigrazione: ma la tendenza a un forte calo resta comunque. Questo permetterà di avere classi meno affollate, ma libererà comunque almeno alcune energie all’interno del mondo della scuola: il governo prevede un calo del personale scolastico pari a circa 60.000 unità in dieci anni.
2. La tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro, già evidente, sarà prevedibilmente accelerata dall’impatto dell’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro. Certo, l’intelligenza artificiale crea anche nuove professionalità, ma gli esperti concordano sul fatto che il saldo complessivo, in questo caso, potrà essere negativo, e potrà portare a una perdita consistente di posti di lavoro (per la prima volta, anche nei lavori intellettuali e creativi), a meno di non intervenire riducendo in maniera generalizzata gli orari di lavoro e ripensando forma e distribuzione delle attività lavorative. Questo libererà tempo, che potrebbe essere usato non solo per svago e interessi personali, ma anche per l’apprendimento.
Se mettiamo insieme questi due fattori con i bisogni formativi ricordati in apertura, la ricetta è abbastanza chiara: aumentare (anziché ridurre) l’investimento in formazione, allargando anche agli adulti il nostro sistema scolastico, con un’offerta di conoscenze e competenze integrative differenziata per fasce di età. Si potrebbe pensare, ad esempio, a forme di “richiamo” scolastico (ad esempio, un mese l’anno), volontario ma incentivato. Basato su un curriculum comune, e non solo sull’aggiornamento professionale specifico.
Ci sarebbero certo molti problemi pratici e metodologici da affrontare e su cui riflettere. Ma la sostanza è che dovremmo tornare tutti a scuola. E – se organizzassimo bene le cose – potrebbe essere un’esperienza non solo utile, ma anche bella. Avremo il coraggio di pensarci seriamente?
© Riproduzione riservata