Il caso giudiziario di cui è stato protagonista lo scrittore Massimo Carlotto è durato dal 1976 al 2004 e ha coinvolto 85 giudici che hanno emesso sette sentenze. Sono state esaminate cinquanta perizie. Due revisioni del processo si sono concluse con esiti opposti.

Un’eccezione eccezionale

È un caso estremo ma anche rappresentativo, perché in tanti anni ci sono state decisioni contraddittorie, prove ignorate e poi smarrite, indicazioni della Corte costituzionale disattese e, addirittura, un cortocircuito giuridico dovuto alle differenze tra vecchio e nuovo Codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre 1989. Parlando di questa vicenda, nel 1993, Gian Domenico Pisapia, avvocato, giurista, presidente della commissione che ha elaborato l’attuale Codice di procedura penale e difensore dello stesso Carlotto, scrisse: «Non ci si può sottrarre, a questo punto, a un’amara considerazione. Assai spesso nella storia giudiziaria, il destino di un uomo e di un’intera famiglia resta legato a una serie di fattori imponderabili, fra i quali si annida, insidiosamente, anche l’errore umano». Michele Curato, presidente della Corte d’assise di Venezia nel 1990 definì il caso Carlotto «un’eccezione eccezionale».

Massimo Carlotto, accusato di omicidio, venne prima assolto, quindi condannato a 18 anni di carcere nel processo d’appello e la sentenza venne confermata dalla Corte di cassazione, diventando definitiva. I suoi difensori presentarono però richiesta di revisione del processo – procedura eccezionale ma prevista dal Codice in caso vengano presentate nuove prove – e la richiesta venne accolta dalla Corte di cassazione, come prevedeva il vecchio Codice di procedura penale in vigore fino al 1989. Si svolse quindi il processo di revisione, che però non si concluse con una decisione perché i giudici non sapevano a quale Codice penale attenersi per emettere la sentenza: se quello vecchio oppure quello nuovo. Dovette intervenire la Corte costituzionale a dare istruzioni con una propria sentenza, che avrebbe dovuto permettere la conclusione del processo.

Ma il tempo passato impedì la ricomposizione del collegio giudicante e ci fu quindi un nuovo processo, che si concluse nuovamente con una condanna a 18 anni di carcere. La Corte di cassazione confermò la sentenza. La vicenda si concluse l’8 aprile 1993, quando il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro concesse la grazia a Carlotto. Ma per capire le sue tortuosità è indispensabile riassumere il fatto di cronaca da cui partì e le indagini che seguirono.

I fatti

L’omicidio per cui sarebbe stato condannato Carlotto avvenne il pomeriggio del 20 gennaio 1976 in via Faggin 27 a Padova, in una villetta bifamiliare non lontano dalla stazione ferroviaria. Intorno alle 17:45 Margherita Magello, 24 anni, laureanda in Lingue, era al telefono con l’amica Silvia Rigotti quando sentì suonare alla porta. Disse all’amica: «Sarà mia madre» e andò ad aprire. Silvia Rigotti sentì Margherita dire a qualcuno: «Non so… se vuole ritornare…» Poi la ragazza tornò al telefono e disse all’amica: «Silvia, è una cosa lunga, ti richiamo.»

Poco dopo le 18 la madre di Margherita Magello tornò a casa, trovò la porta di ingresso spalancata e le luci accese. Mentre era ferma sul pianerottolo vide entrare nella palazzina il tenente dell’aeronautica Paolo Cesare Cagni, che abitava al piano superiore, e gli chiese di accompagnarla dentro perché era preoccupata. Trovarono il corpo nudo di Margherita che spuntava da una cabina armadio. Sul letto c’era una camicia sporca di sangue. Disse poi Cagni: «Quando la toccai, Margherita era ancora calda, non so se fosse viva o morta ma uno dei barellieri disse che era ancora viva.» Quella sera alle 22 si presentò nella caserma dei carabinieri un ragazzo di 19 anni, Massimo Carlotto, studente e militante dell’organizzazione di sinistra Lotta continua. Disse: «Margherita è morta tra le mie braccia ma io non c’entro nulla, non sono stato io.»

Carlotto raccontò che quel pomeriggio stava svolgendo per il movimento un’indagine sullo spaccio di eroina in quella zona di Padova: stava passando in bicicletta davanti al 27 di via Faggin, dove abitava sua sorella Antonella, sposata con il tenente Cagni, quando aveva sentito delle grida. Era entrato nell’appartamento, che aveva la porta aperta, e aveva trovato Margherita Magello. Dopo averlo ascoltato, i carabinieri gli contestarono l’accusa di omicidio volontario. Gli abiti di Carlotto erano sporchi di sangue, ma in maniera piuttosto limitata: i carabinieri lo accusarono di essersi cambiato dopo aver accoltellato la ragazza.

Carlotto si dichiarò innocente, come poi ha sempre fatto, assumendosi la responsabilità dell’omissione di soccorso per non aver chiesto subito aiuto. Anni più tardi, in un’intervista al quotidiano Avvenire, disse: «Sono colpevole di omissione di soccorso, l’ho sempre detto e mi porterò questa colpa addosso per tutta la vita, ma non mi si può accusare d’altro. So però che è successo a molti testimoni: non si può pretendere che tutti i cittadini siano John Wayne».

L’accusa

Su molti giornali, nei giorni seguenti, l’accusa contro Carlotto fu rafforzata dal suo appartenere a un movimento giovanile di sinistra, in anni in cui le violenze politiche stavano diffondendo tensione e paura. Gli inquirenti non analizzarono altre piste né presero in considerazione le frequentazioni di Margherita. Il caso venne praticamente considerato chiuso già 24 ore dopo l’omicidio. Carlotto restò in carcere un anno, in attesa di processo.

I testimoni chiamati dal Pubblico ministero e dagli avvocati difensori raccontarono in tribunale che Carlotto conosceva Margherita Magello solo di vista. Secondo la ricostruzione dei fatti, la ragazza aveva aperto la porta all’aggressore e poi era andata in bagno, dove stava riempiendo la vasca. La difesa di Carlotto affermò che questo comportamento non sarebbe stato plausibile senza una confidenza maggiore tra la vittima e l’assassino e che fosse più credibile che Carlotto avesse invece interrotto l’assassino che, a quel punto, si era nascosto nell’armadio: Carlotto disse infatti di aver visto sul corpo di Margherita sei-sette coltellate e non le 59 accertate poi.

Sostenne inoltre che la ragazza fosse ancora viva quando era fuggito dall’appartamento. Molti dubbi rimasero insoluti. Tra la telefonata con l’amica e l’arrivo della madre di Margherita erano trascorsi dieci minuti, quindi chi aveva suonato alla porta era quasi certamente l’aggressore: la difesa sostenne che se fosse stato Carlotto la ragazza non gli avrebbe dato del lei, così come aveva sentito l’amica che la stava aspettando al telefono perché si trattava di un 19enne che conosceva di vista.

E poi perché nonostante le 59 coltellate i vestiti di Carlotto presentavano solo poche tracce di sangue? Era anche poco plausibile che l’aggressione fosse avvenuta proprio nell’orario in cui Carlotto sapeva che suo cognato – il vicino – tornava abitualmente a casa. Inoltre, come mai l’imputato aveva detto ai carabinieri che la ragazza aveva pronunciato il suo nome, Massimo? Infine all’arrivo dei soccorsi l’acqua nella vasca da bagno era tiepida, la ragazza era nuda e sotto di lei c’era un asciugamano: ma sul letto c’era una camicia sporca di sangue.

La vicenda giudiziaria

Il 15 maggio 1978 Carlotto venne assolto per insufficienza di prove, secondo una formula allora presente nel Codice di procedura penale che sarebbe stata abrogata in quello in vigore dal 1989. Nel vecchio Codice, infatti, esisteva – accanto alla «formula piena» – una cosa chiamata «formula dubitativa» dell’assoluzione, che in sostanza associava ad alcune assoluzioni l’idea che l’imputato fosse stato assolto ma con qualche dubbio, e che di solito era motivata con l’«insufficienza di prove»: idea che creava una contraddizione con la presunzione di innocenza, ovvero col concetto che chiunque non sia stato condannato con sentenza definitiva sia da ritenersi del tutto innocente.

Il Codice entrato in vigore nel 1989 ha quindi reso «piena» ed equivalente ogni assoluzione, eliminando la disparità, ma chiede comunque al giudice di definirne la ragione nelle motivazioni della sentenza: ovvero nel documento pubblicato successivamente alla sentenza, in cui formule come «insufficienza di prove» sono tuttora usate. Per farla breve: la sentenza di assoluzione è uguale per tutti, le motivazioni dell’assoluzione no. La procura fece ricorso contro l’assoluzione e il processo d’appello fu molto breve: appena due giorni di udienza, e si concluse il 19 dicembre 1979. Gli stessi elementi che avevano portato all’assoluzione per insufficienza di prove nel processo di primo grado portarono questa volta alla condanna a 18 anni di carcere. La pena per omicidio doloso cosiddetto semplice va da un minimo di 21 a un massimo di 24 anni (la pena può arrivare a trent’anni e anche all’ergastolo se viene ravvisata dai giudici una serie di aggravanti).

I giudici nel processo d’appello stabilirono quindi per Carlotto il massimo della pena prevista dal Codice, concedendo però le attenuanti generiche e quindi lo sconto di un terzo. Le attenuanti generiche sono concesse quando l’imputato, per esempio, collabora con la giustizia o quando dà segni di ravvedimento o pentimento o quando confessa il reato, oppure ancora, come avvenne nel caso Carlotto, quando l’imputato dimostra scarsa pericolosità sociale. La condanna venne poi confermata dalla Corte di cassazione tre anni dopo, il 19 dicembre 1982, ben sei anni dopo l’omicidio.

Un nuovo processo

Le molte contraddizioni e incertezze della sentenza e dello svolgimento delle indagini motivarono la difesa di Carlotto a chiedere la «revisione» del processo: che è una possibilità straordinaria di «correzione» di una sentenza definitiva prevista dal Codice, volta a proteggere gli imputati da possibili «errori giudiziari». In pratica, un ulteriore processo. Ma è appunto straordinaria e le norme prevedono che possa essere concessa solo a fronte di nuove prove o accadimenti ignoti durante i processi precedenti o non presi adeguatamente in considerazione: la richiesta di revisione deve prima essere giudicata ammissibile dalla Corte d’appello competente, che se decide in questo senso celebra poi il processo come se si trattasse di un nuovo processo d’appello (nel caso di Carlotto, sempre perché era in vigore il vecchio Codice, a valutare e accogliere la richiesta di revisione fu la Corte di cassazione).

Gli avvocati difensori di Carlotto avevano presentato una serie di nuovi elementi: un’impronta di scarpa mai analizzata e rinvenuta sul piede destro della vittima (l’impronta non corrispondeva a quelle delle scarpe indossate da Carlotto); la mancanza di tracce di sangue sia all’esterno che all’interno dei guanti indossati da Carlotto; la compatibilità tra le modalità di realizzazione del delitto (colluttazione violenta con la vittima) e lo stato degli abiti di Carlotto, con pochissime macchie di sangue. Inoltre, non erano state rilevate tutte le impronte presenti nell’abitazione dove era avvenuto il delitto e, nei primi processi, erano state presentate mappe della casa incomplete che non mettevano in evidenza possibili vie di fuga, mai prese in considerazione durante l’indagine.

Infine, fu chiesto l’esame di due prove mai analizzate: un fustino di detersivo con tracce di sangue appartenenti al gruppo B (imputato e vittima erano del gruppo A e 0) e un capello trovato sotto le unghie di Margherita Magello. Alcuni degli elementi di prova in questione erano però stati nel frattempo smarriti dalle autorità deputate alla loro conservazione. Il 30 gennaio del 1989 la Corte di cassazione accolse la richiesta di revisione del processo presso la Corte d’appello di Venezia.

Era accaduto prima solo altre quattro volte nella storia della giustizia italiana. Il nuovo processo iniziò il 20 ottobre 1989, quattro giorni prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale. Il 22 dicembre 1990, dopo 14 mesi di dibattimento e al momento di formulare la sentenza, la Corte d’appello si rivolse però alla Corte costituzionale affinché decidesse se andasse applicato il criterio del vecchio Codice di procedura penale o quello del nuovo, entrato in vigore pochi giorni prima.

Il vecchio Codice richiedeva infatti al giudizio di revisione di assolvere l’imputato solo quando la prova «viene del tutto a mancare», escludendo invece il caso dell’insufficienza di prove (implicando insomma che in sede di revisione le condizioni per assolvere dovessero essere diverse e più rigide rispetto agli altri processi): ma secondo l’ordinanza conclusiva della Corte d’appello di Venezia dallo svolgimento del processo risultavano una «condizione di insuperabile incertezza» e «insufficienti prove per condannare», e si poneva quindi la questione se questa insufficienza di prove non permettesse di assolvere in un processo di revisione oppure se – con l’abolizione della formula «dubitativa» dal nuovo Codice – la condizione di insufficienza di prove fosse da equiparare a qualunque altra ragione di assoluzione.

Districando un groviglio di pareri, di accavallamenti temporali e di principi di uguaglianza, la Corte costituzionale decise in favore dell’applicazione del nuovo Codice e che quindi la condizione di «insufficienti prove per condannare» a cui erano giunti i giudici di Venezia dovesse valere ad assolvere anche nel processo di revisione.

La grazia

Era il 5 luglio 1991 e a questo punto la Corte d’appello che aveva chiesto il parere della Corte costituzionale avrebbe dovuto tornare a riunirsi e pronunciare la sentenza, senza ulteriori rinvii, così come indicato dal pronunciamento della Corte costituzionale. Ma nel frattempo il presidente era andato in pensione e la giuria popolare aveva esaurito il suo mandato ed era stata sciolta. Fu quindi istituito un nuovo collegio che di fatto svolse un nuovo dibattimento durato un mese, che si concluse il 27 marzo 1992 in modo opposto, ritenendo le nuove prove sufficienti a modificare la precedente condanna di Carlotto, e confermandola.

I legali di Carlotto citarono l’articolo 7 del Codice di procedura penale secondo cui «i dibattimenti vengono conclusi dallo stesso collegio anche dopo la scadenza della sessione nel corso della quale sono iniziati», e da più parti si segnalò la contraddizione per cui Carlotto era stato di fatto assolto e condannato dalla stessa corte. Scrisse ancora Pisapia: «Questo drammatico alternarsi di condanne e di assoluzioni, di carcerazioni e scarcerazioni, ha sottoposto Massimo Carlotto e i suoi genitori a una continua doccia scozzese, fatta di sofferenze e di speranze, di gioia e di disperazione, mettendo a dura prova non solo la salute di Massimo ma anche quella di suo padre, colpito da ben tre infarti in questi lunghi anni trascorsi dal 1976 a oggi.»

Il giorno dopo la sentenza la Procura generale di Venezia emise l’ordine di carcerazione per l’esecuzione della pena. Carlotto venne arrestato: uscì dal carcere dopo 47 giorni per motivi di salute. Venne anche deciso il differimento della pena di un anno. Il 24 novembre 1992 la Corte di cassazione confermò nuovamente la sentenza di condanna.  Meno di un mese dopo i genitori di Massimo Carlotto presentarono domanda di grazia. L’8 aprile 1993, un mese prima che scadessero i tempi di differimento della pena, il presidente Oscar Luigi Scalfaro concesse la grazia, senza indicare una precisa motivazione e nonostante la forte opposizione della famiglia di Margherita Magello, che ha sempre considerato Massimo Carlotto colpevole.

La concessione della grazia non cambiò però l’esito della vicenda giudiziaria. Per la giustizia italiana Massimo Carlotto ha ucciso Margherita Magello. Carlotto presentò poi istanza di revisione sia alla Corte europea per i diritti dell’uomo sia alla Corte di cassazione. Il 29 gennaio 2004, 28 anni dopo il primo arresto, ottenne la riabilitazione dal Tribunale di Cagliari (da molti anni Carlotto vive tra Padova e la Sardegna) riacquistando così pienamente i diritti civili e politici. La riabilitazione, che è una possibilità prevista dall’articolo 178 del Codice penale, è una procedura che consente a chi è stato condannato e ha scontato la pena o, come nel caso di Carlotto, ha ricevuto la grazia dal presidente della Repubblica, di ottenere la cancellazione dei reati dal casellario giudiziario.

Inoltre, la riabilitazione permette la cancellazione delle cosiddette pene accessorie e cioè l’interdizione da una professione, l’interdizione dai pubblici uffici (e cioè il diritto di voto o di essere eletto, di ricevere stipendi, pensioni o assegni a carico dello Stato, la sospensione di gradi o cariche accademiche) la decadenza o la sospensione della potestà genitoriale, il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione. La riabilitazione può essere richiesta al Tribunale di sorveglianza del luogo di residenza se sono passati almeno tre anni dalla fine della pena scontata e se alla persona che ne fa richiesta vengano riconosciute «prove effettive e costanti» di buona condotta.

L’articolo è tratto da E giustizia per tutti, il quarto numero di Cose. Spiegate bene, in libreria dal 3 novembre (Iperborea, pagg. 224, euro 19,00). Cose. Spiegate bene è la rivista di carta del Post, realizzata in collaborazione con Iperborea. 

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