Ieri, la prestigiosa rivista scientifica Nature ha pubblicato un editoriale intitolato «Il coronavirus è nell’aria, ma ci concentriamo ancora troppo sulle superfici». La tesi dell’articolo è semplice, ma potenzialmente rivoluzionaria: dopo un anno di pandemia è diventato chiaro che il Covid-19 si diffonde soprattutto tramite gli aerosol, microscopiche particelle che rimangono sospese in aria per minuti o addirittura ore. Perché, allora, siamo ancora tutti così concentrati sull’importanza di disinfettare le superfici?

Droplet e superfici

All’inizio della pandemia gli scienziati avevano stabilito rapidamente che la malattia si trasmettava tramite “doplet”, gocce di saliva più pesanti dell’aerosol che in genere cadono a terra a una distanza massima di un paio di metri. Poi, lo scorso 30 marzo, è stato pubblicato il primo studio scientifico in cui si dimostrava la capacità del coronavirus di resistere per giorni all’interno dei droplet. In altre parole, ci si poteva contagiare toccando oggetti infetti.

A questa notizia hanno fatto seguito settimane di panico e di titoli di giornale allarmistici, ma soprattutto ne è derivata la raccomandazione da parte delle autorità sanitarie di disinfettare tutte le superfici il più frequentemente possibile. Centinaia, forse migliaia, di milioni di euro sono stati spesi in tutto il mondo per disinfettare scuole, ospedali, uffici e persino strade e marciapiedi (in Italia lo hanno fatto decine di comuni tra cui Napoli, Palermo, Foggia, Padova, Vercelli, Lodi, Enna e Bergamo). Secondo l’Associazione nazionale imprese di pulizia di Confindustria, il costo delle sanificazioni dei privati potrebbe arrivare in un anno fino a 2,5 miliardi di euro, mentre il governo ha stanziato oltre 200 milioni in crediti di imposta per queste attività.

È l’aerosol, sciocco

Ma nell’ultimo anno, per quanto gli scienziati si siano impegnati a cercare infezioni da fomiti (cioè contagi dovuti al contatto con una superficie infetta) i casi confermati rimangono rarissimi, una percentuale residuale rispetto alla stragrande maggioranza dei casi in cui le persone contraggono la malattia respirando.

E nella trasmissione del virus, hanno scoperto gli scienziati, il leggerissimo aerosol, che rimane in circolo per ore, è molto più importante dei droplet. Lo studio più citato in proposito analizza una sessione di prove di un coro nello stato di Washington durante la quale 61 partecipanti si sono ammalati, molti di loro senza mai avvicinarsi a meno di una decina di metri dall’unica persona infetta presente quel giorno.

Cosa si può fare?

In Italia, come in gran parte del mondo, le azioni di contrasto al virus da parte di politica e amministrazioni pubbliche si sono concentrate sui primi due rischi di trasmissione che sono emersi: droplet e superfici. Milioni di euro sono stati investiti nei famosi banchi monoposto per garantire il distanziamento scolastico e molti altri sono stati spesi nell’igienizzazione degli edifici scolastici.

Il ruolo dell’aerosol è invece rimasto sullo sfondo, così come la misura di sicurezza che, insieme al distanziamento, è la più efficace nel contrastarlo: l’aereazione. Diluendo l’aria contaminata con quella pulita proveniente dall’esterno, infatti, si diminuisce drasticamente la concentrazione di particelle infette e la possibilità di contagio.

Il Comitato tecnico scientifico e il ministero dell’Istruzione raccomandano di aprire le finestre in classe durante il cambio dell’ora, ma di investimenti in impianti di aereazione meccanica in Italia per ora non c’è traccia (anzi, un emendamento alla legge di bilancio presentato da un senatore della Lega è stato bocciato lo scorso dicembre). Ma, ricorda Nature, ora che abbiamo molto più chiaro come si diffonde il virus, sappiamo che è questa la strada da percorrere.

 

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