In Sicilia va di moda il lancio del sacchetto. Appare soddisfatto e compiaciuto per la battuta il dirigente di un comune quando fa il paragone con alcune discipline sportive. Anche se sa bene pure lui che c’è poco da ridere. Benvenuti nell’isola delle contraddizioni e dell’atavica lentezza del detto del Gattopardo «bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima». Perifrasi tuttora attuale se riferita alla questione rifiuti.

Lo straordinario immobilismo siculo riguarda infatti anche la spazzatura. Decenni e decenni di interventi, di provvedimenti inutili e proteste (si manifestava già nel ’68), di discariche quasi esaurite prima chiuse, poi ampliate e riaperte, di emergenze e scontri a tutti i livelli, di tonnellate di sacchetti lasciati a ogni angolo del territorio, pure nelle riserve naturali come il polmone dell’Etna. Uno scempio al centro di scambi e favori mafiosi delle lobby criminali della spazzatura che dominano da tantissimi decenni, in grado con il loro strapotere finanziario di condizionare e pilotare appalti e persino di condizionare indagini e amministrazioni pubbliche.

Perciò tutto è rimasto immobile, se non peggio. E nessuno finora è riuscito a cambiare le cose, oppure ha fatto finta di cambiarle per poi farle restare com’erano. Sotto il suo governo regionale l’ex presidente Nello Musumeci (attuale ministro per la Protezione civile e per il mare), che aveva promesso una rivoluzione, fu poi costretto a varare il provvedimento di trasferimento di una parte dei rifiuti eccedenti all’estero per oltre 22 milioni annui, nella maggior parte dei casi per vistosi disservizi soprattutto nelle provincie di Catania, Ragusa e Siracusa. Così i cittadini si ritrovano a pagare una tassa che in alcune aree raggiunge quasi mille euro per una casa di 100 metri quadrati. A Milano per la stessa superficie se ne pagano poco più di 200.

La Tari in alcune grandi città come Catania è la più alta d’Italia per un servizio a dir poco pessimo, con tonnellate incalcolabili di indifferenziato che finiscono nelle discariche per arricchire il padroni di turno. Nel capoluogo etneo metà della popolazione la Tari non la paga e il comune ogni anno, all’approvazione del bilancio, deve reperire le risorse necessarie per coprire l’ammanco, con riduzione, se necessario, di altri servizi.

I termovalorizzatori

La regione Sicilia in un incontro a Roma ha chiesto al governo i poteri speciali per realizzare i termovalorizzatori, con la nomina di un commissario nella figura del presidente Renato Schifani. Ma partendo dal fatto che al momento la Sicilia ha raggiunto il 50 per cento di differenziata il piano messo a punto un anno fa dal precedente governatore Musumeci non va più bene. Bisogna modificarlo e questa modifica non si sa quanto tempo richiederà.

Secondo la regione, per realizzare in tempi rapidi gli impianti è necessario uno snellimento delle procedure autorizzative. Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha espresso la propria disponibilità a concedere poteri speciali alla Sicilia così come già avvenuto a Roma sulla scia del modello del sindaco Roberto Gualtieri. Il governo a questo punto starebbe preparando un apposito provvedimento normativo che poi deve passare al Consiglio dei ministri per il via libera definitivo.

Su questo punto i Cinque stelle sono fortemente contrari e anche il Pd siciliano, col segretario regionale Anthony Barbagallo dissente, sposando la recente linea della segretaria Elly Schlein che ha detto che «la scelta sul termovalorizzatore di Roma è stata già presa prima della mia elezione» . «Intanto – spiega Barbagallo - la linea del partito nazionale è unica. Comunque noi in Sicilia da anni abbiamo sempre detto che la realizzazione degli inceneritori è illogica oltre che illegittima. E questa è sempre la nostra linea».

Di inceneritori in Sicilia si parla da oltre 20 anni. Musumeci aveva fatto una prima manifestazione di interesse individuando due proposte di aziende disponibili a realizzare due impianti, uno a Catania e l’altro a Palermo. Occorreva adesso un secondo bando per assegnare fattivamente la realizzazione degli impianti, secondo le tipologie tecniche individuate. Ma il nuovo governo Schifani ha cambiato prospettiva. «L’idea attuale – spiega l’assessore all’Ecologia, Roberto Di Mauro – è quella di fare i termovalorizzatori dove c’è maggiore conferimento di rifiuti. Abbiamo affidato all’Università di Palermo lo studio dei flussi e del sistema impiantistico per determinare un aggiornamento del Piano dei rifiuti per poi meglio determinare quanti termovalorizzatori servono, tenendo presente che la loro realizzazione non è certo veloce».

Per il territorio sfregiato dai rifiuti Di Mauro ha invece attaccato soprattutto i comuni dell’area orientale dell’isola e le Società di regolamentazione della gestione rifiuti (Srr): «Talune amministrazioni comunali non sono in grado di affrontare la raccolta. E alcune Srr non sono state all’altezza dei ruoli. Noi abbiamo una organizzazione che in questo momento regge bene. Il Cts dovrebbe a breve approvare lo sbancamento di altre 250 tonnellate al giorno nella discarica di Gela. Ma a Siracusa, Catania e Ragusa non c’è una sola discarica perché è rimasta inosservata la legge 9 del 2010 sul compito di realizzare in ogni provincia il servizio di raccolta e conferimento. Ma se il territorio se ne fotte, non è che poi l’emergenza può scaricarla sulla regione…».

L’assessore se la prende anche con le amministrazioni delle due grandi città dell’isola. «Se Palermo non riesce a fare la differenziata come si deve, se Catania è ancora su valori sottodimensionati e ogni anno paga la penale, tutto dipende dalla qualità degli amministratori e dei cittadini – insiste – Se noi oggi avessimo Catania e Palermo all’altezza di tutti gli altri comuni più piccoli, oggi saremmo al di sopra del 65 per cento di differenziata. Ciò significa che su 2 milioni 200mila tonnellate di produzione al giorno, noi avremmo circa 1400 tonnellate di raccolta differenziata con un abbattimento dei costi».

La mafia dei rifiuti

Un anno fa il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro dichiarò all’Antimafia che «Cosa nostra approfittando dell’emergenza rifiuti in Sicilia, dovuta a una scellerata scelta fatta dalla regione nel corso degli anni, si infiltra nella gestione e nel conferimento. Grazie a questa politica di non scegliere determinate cose il settore delle discariche, che è particolarmente redditizio, è in mano quasi per intero a soggetti collegati alla mafia».

L’ex presidente dell’Antimafia regionale, Claudio Fava, in prossimità della fine della scorsa legislatura, rispondendo a una domanda sulla Sicilia così sporca esclamò: «È così perché i presidenti siciliani che ci sono stati fino adesso hanno ritenuto di dover garantire e tutelare il privilegio dei padroni delle discariche private, senza investire in impianti pubblici».

Andando ancora più a ritroso nel tempo l’ex assessore all’Ecologia del governo Crocetta, il magistrato Niccolò Marino, venne sonoramente licenziato dal suo presidente dopo che aveva rilasciato alcune interviste sul ciclo dei rifiuti asserendo chiaramente che sarebbe andato avanti e non si sarebbe affatto lasciato condizionare dalle lobby dei rifiuti. Lo scontro fu molto forte e coinvolse anche l’ex presidente di Confindustria Antonello Montante poi finito agli arresti, ma per altre vicende giudiziarie.

Evasione

Sui rifiuti nel meridione c’è una evasione da fare paura. In Sicilia, in alcune aree, supera il 50 per cento. Alcuni anni fa al vicesindaco di Catania, Roberto Bonaccorsi, alle prese con una situazione delle casse disastrosa e un vertiginoso aumento dei costi della discarica, venne in mente di proporre al governo nazionale la possibilità di inserire nella bolletta elettrica la Tari comunale, prevedendo una clausola a salvaguardia delle fasce meno abbienti. «Era una maniera per cercare di ridurre l’enorme voragine nelle entrate della tassa e per recuperare qualcosa era necessaria una riscossione coatta», commenta adesso Bonaccorsi, «allora ci furono numerose interlocuzioni col governo – era in carica il premier Giuseppe Conte – ma poi non se ne fece nulla… Si disse che ci voleva una legge ad hoc che il governo non volle adottare». Gli incontri durarono sei mesi col sostegno dell’Anci nazionale, ma la proposta finì in un cassetto. Una domanda a questo punto sorge spontanea: perché il canone tv sì e la Tari no?

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