Se dovessimo dire dove Cina e Italia possono incontrarsi sarebbe senza dubbio a tavola. E se dovessimo trovare una possibile tavola a cui farlo questa esiste già, è la tavola di Yan Jiang nel ristorante Oolong a Roma. 

Nata e cresciuta a Shanghai da famiglia di dinastia imperiale (quella Qing) unita con la nobiltà industriale cinese, passata attraverso gli anni della rivoluzione culturale in cui tutto gli è stato levato e poi (in parte) restituito, Yan Jiang è venuta in Italia dopo l’università insieme a quei pochi italiani che all’epoca avevano studiato in Cina.

Una carriera in Toscana da giornalista, corrispondente, conduttrice in RAI (Un mondo a colori), direttrice di giornali a metà tra Cina e Italia, mediatrice tra la comunità cinese locale e l’Italia, legami con il ministero degli affari esteri e l’ambasciata cinese (del resto dove potevano finire tutti gli amici italiani che con lei avevano studiato in università cinesI?) e poi una seconda vita da ristoratrice in piena continuità diplomatica con la prima. 

La Cina che non conosciamo

Oggi Oolong può anche essere considerato un distaccamento dell’ambasciata cinese a Roma: «Dall’ambasciata mi vogliono bene» spiega Yan Jiang «sanno che se organizzano una cena con ospiti qua e qualcuno dei loro non può essere presente ci sono io, e va bene lo stesso».

Ma non è solo questo, Oolong viene scelto perché è uno dei rari posti in cui mangiare la miglior cucina cinese non modificata per gli italiani, nonché il solo in cui assaggiare i piatti della tradizione imperiale, cioè come si cucinava per gli imperatori (porzioni piccole e preparazioni che siano sia buone che salutari). Il massimo del tradizionale animato dalla testa moderna e curiosa di Yan Jiang con l’obiettivo ambizioso di cambiare l’idea che abbiamo della ristorazione cinese e quindi della Cina. Cambiare le coscienze a partire dai palati.

«La comunità cinese in Italia viene per il 90% da una sola zona della Cina, il Zhejian, e fanno un tipo di cucina solo, creata per voi, molto economica, molto standardizzata. Ovunque mangi il sapore più o meno è lo stesso e i piatti sono gli stessi».

Non accade da Oolong dove tra i piatti più richiesti, quelli che non si possono levare dal menù, ci sono la medusa (tagliata a fette sottili come gelatina ma concreta come una carne) e l’uovo d’anatra centenario, fermentato 60 giorni in un involucro di terra, paglia e bucce di riso fino a raggiungere una consistenza che non ha più niente in comune con le uova come le conosciamo e un sapore stagionato come il formaggio: «Sono i piatti dei capodanni della mia infanzia, quelli che mio padre diceva agli chef di famiglia che non dovevano mancare mai. È proprio la vecchia Cina dei miei ricordi».

L’enclave cinese a Roma

Prima di Yan Jiang non esisteva a Roma, la città della politica, un ristorante cinese di alto livello, uno che rifiutasse la solita cucina cantonese fatta di involtini primavera, riso saltato giusto un paio di volte per dare un’idea di oriente e glutammato (a cui simbolicamente Yan è proprio allergica).

Lei ha cominciato dalla sua cerchia di conoscenze a creare un’altra mentalità contagiando una parte importante del centro di Roma (i suoi clienti affezionati vanno da Vauro a Michele Santoro a Giorgia Meloni) nei venti anni in cui è stata l’anima di Green T., il ristorante che gestiva insieme al marito italiano: «Lì era più difficile fare qualcosa di nuovo, pensa che il menù è rimasto praticamente sempre lo stesso». Ora invece, da sola, è proprietaria e manager di un angolo al centro di Roma dove prima sorgeva una trattoria romana, La regola, chiusa per morosità, rilevata da Yan e ristrutturata.

Per arrivare da Oolong quindi si passa per vicoli pieni di ristoranti da cui esce odore di guanciale, di pecorino grattuggiato, di interiora d’animale cotte nel vino, crostini croccanti con mozzarella filante e alici fuse, carciofi fritti, maritozzi con panna caldi e ogni genere di alimenti che uno stomaco romano conosca, fino ad una porta con un’insegna che facilmente si può non vedere oltre la quale tutto il profumo cambia. Ingresso sobrio per un interno sorprendente, con un piccolo esterno eccezionale che nasconde la vista sulla chiesa di San Paolo alla Regola.

Il massimo del cinese dentro al massimo del romano, con una sala per eventi privati, cui si giunge scendendo nei sotterranei a volte romane ma con nicchie nelle pareti contenenti veri vasi della dinastia Qing, tutta arredata con i colori imperiali (oro e nero) e mobili della famiglia di Yan.

Le mentalità si cambia

Oolong è palesemente per una clientela che capisce questa offerta, e ogni tanto capita qualcuno che ha sbagliato posto, che pensa di entrare in un ristorante cinese comune e rimane sorpreso dalla qualità dell’offerta e dalla conseguente sostanza del conto: «Ho imparato a riconoscerli, già al telefono chiedono se parliamo italiano, quando entrano cerco di spiegare con calma cosa troveranno. Molti italiani la prima volta si sentono superiori perché questo è un ristorante cinese ma la mentalità si cambia una persona alla volta, con i modi, con l’offerta e con la qualità di quello che mangiano. Alla fine mi ringraziano tutti, specialmente i più scettici». Si stupisce? «Dopo quasi 30 anni qui sono mezza italiana, non mi stupisco più di niente».

La Cina è cambiata così tante volte negli ultimi 30 anni che quella in cui ha vissuto Yan Jiang non esiste più: «Alla fine mi sento persa nel mondo, così la Cina dei miei ricordi me la sono ricostruita per potermi sentire a casa». L’ha ricostruita a Roma, a sua immagine e somiglianza, a metà tra due culture anche se come dice lei con una sintassi rigorosamente tra italiano e cinese: «Io sono Shanghai dentro. Shanghai per sempre». 

Tradizionale o fusion?

A partire dai Ravioli ai 4 tesori (più piccoli e più creativi nella farcitura) o dal Tramonto di Shanghai (due preparazioni diverse di riso saltato abbinati per formare il disegno di un tramonto) per arrivare alla Fenice in nido di giada (trito di pollo in un nido di patate con insalata rossa come una fenice, tutto saltato e senza salse) o al piatto più amato del ristorante, l’Anatra alla pechinese servita sotto forma di scaglie croccanti in un piccoli involtini da confezionare al tavolo, non c’è idea di Yan Jiang che non superi in efficacia la più ponderata delle affermazioni sulla necessità di reimmaginare la cucina cinese anche in Italia.

Il prossimo passo è l’arrivo dell’hot pot, una casseruola posta al centro del tavolo in cui (come nella nostra fondue) ognuno può cuocere in una zuppa aromatizzata dalle spezie carne o noodles: «Sarà quello tradizionale preparato per 6 ore con una zuppa molto densa con le spezie tradizionali. Tutte le salse di condimento saranno preparate da noi e non ci sarà glutammato. Basta una ciotola e già ne senti i benefici».

Yan Jiang non vuole però aumentare i tavoli o espandersi, questa è la dimensione giusta. A cosa ambisce allora? «Guarda, una volta che lavori cosa vuoi di più? Potrei già essere contenta così, però un desiderio ce l’ho. Qui facciamo una cucina fusion molto raffinata dagli ingredienti fino all’impiattamento, mi piacerebbe essere citata in una guida. Mi piacerebbe come riconoscimento per me e sarebbe un punto d’arrivo per la presenza di questa cucina in Italia».
 

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