Immaginate un premier che tiene una conferenza stampa per trattare il caso di un uomo, positivo al coronavirus, che aveva fornito informazioni non accurate e intempestive – lavorava in una pizzeria, non ne era solo cliente – alle autorità. Un individuo. Risultato: una città da un milione e trecentomila abitanti, Adelaide, è stata chiusa per una settimana. Steven Marshall, primo ministro dello Stato del South Australia, ha pure sguinzagliato venti detective per chiarire la situazione. Non era accettabile, che un caso di positività fosse sfuggito alle maglie del controllo. Il pizzaiolo se l’è vista brutta e ha dovuto fare pubblica ammenda, per aver costretto una delle città più popolose del continente a barricarsi in casa dopo mesi di restrizioni.

È anche con misure draconiane come questa, però, che oggi esiste un posto, sul pianeta Terra, in cui il Covid incide sulla salute come un’influenzetta passeggera. Quel posto  è l’Australia: venticinque milioni di abitanti, neanche 30.000 casi di positività, 909 morti. Non dall’inizio dell’anno, ma dall’inizio del tutto.

L’altro lato del mondo

Dario Castaldo è un giornalista italiano che vive a Melbourne, da anni. Lavora per la versione italiana di Sbs, azienda pubblica radiotelevisiva che offre notizie ai cittadini in 74 lingue: compresi lo swahili e il dinka, perché gli australiani non ammettono deroghe per chi vuole entrare nel Paese, devi dimostrare di poterti mantenere e integrarti lavorando, altrimenti torni da dove sei venuto. Ma se entri, entri per davvero e fai parte della società, come tutti gli altri “aussie”. Certo: il bello di vivere in un mondo a parte, la popolazione di due Lombardie e mezza sparpagliata in 320 Lombardie di superficie, una appresso all’altra e circondate dagli oceani, è anche questo. Poter prendere di petto i problemi senza rendere conto ai vicini, con margini di manovra inimmaginabili per la densità abitativa europea: «Vista da qui – dice Castaldo - la vicenda del Covid ha fatto emergere un principio: gli australiani, mediamente, hanno accolto con favore i provvedimenti restrittivi. La pandemia ha rafforzato l’identità insulare della nazione, i leader statali e federali ne sono usciti bene. Anche perché questo è un posto in cui, se le decisioni prese vengono ritenute di buon senso, oneste ed efficaci, si ubbidisce e basta. Quando si pensa all’Australia, non bisogna fare paragoni con lo spirito critico che alberga altrove». Ogni riferimento all’Italia è voluto.

Troncare e sopire

A dicembre scorso, sono scoppiati una quindicina di casi in una zona di Sydney: per l’Australia, è un focolaio federale. Quindi, immediato lockdown in loco e altra chiusura delle frontiere interstatali. Troncare e sopire. Al più, qualche cittadino di metropoli ha improvvisato proteste, ultimamente, perché le misure restrittive non sono state allentate neanche a epidemia chiaramente soffocata, se non dopo il controllo definitivo di tutti i dati sui contagi. Per loro, nessuna pietà. Il ministro della salute del Victoria, Martin Foley, li ha liquidati così: «Non è questo il momento di protestare. Chi lo fa, è in cerca di guai. Ai cittadini dico: stay safe, stay open». È il motto nazionale: se volete la libertà, comportatevi come si deve. Basta uno starnuto di troppo, che riparte il lockdown; se tutti seguono le regole senza discutere, sgarrare, o pensare di essere al di sopra della legge, se ne esce prima e insieme. Non è traducibile, in australiano, il termine «furbetto». Né di negazionista. Là sono semplicemente degli sparuti idioti, che si mettono in fuorigioco rispetto al consesso sociale.

In effetti, hanno fatto più rumore le manifestazioni di piazza dello scorso 26 gennaio, festa nazionale, che per gli indigeni è “il giorno dell’invasione”, quello in cui si celebra non tanto la nascita dell’Australia moderna, quanto l’anniversario dell’arrivo di popoli destinati a soppiantare, anche violentemente, le culture locali. È finita con qualche centinaio di arresti e alcuni contusi, ma il coronavirus non c’entrava nulla.

Molti australiani hanno installato la COVIDSafe App sul loro telefono, la versione downunder di Immuni. Ma la verità è che non serve: quando dei nuovi positivi conosci nome, cognome e taglio di capelli, il tracciamento digitale è ridondante. In questi giorni, il numero di ospedalizzati causa infezione da coronavirus non arriva a 30. Se vivi in un posto in cui fa notizia al telegiornale un caso in una metropoli, la probabilità di avere respirato la stessa aria di un positivo è prossima allo zero. «Qui non si sono fatti scrupoli già un anno fa – aggiunge Castaldo - a cancellare il Gran Premio di Albert Park, e mancavano 48 ore al via. Appena si è sentito parlare di possibili focolai, la reazione alle notizie e immagini da Wuhan è stata la serrata». Il principio ispiratore della gestione locale è stato proprio il rifiuto del compromesso. Alle prime notizie di contagi, nel febbraio 2020, l’Australia ha imposto due settimane di auto isolamento per chi arrivava dall’estero, chiudendo quasi subito le frontiere per i non cittadini. Gli australiani fuori sede, per un po’, sono rientrati a scaglioni e hanno fatto le loro quarantene in albergo, a spese dello Stato. Dopodiché, l’onere  è passato in capo a ciascun cittadino. Tuttora, a Melbourne, per tutto il mese di febbraio resta in vigore il limite di 1.100 arrivi al mese, non uno di più. Ecco perché l’arrivo di una carovana di tennisti stranieri, con entourage appresso, per disputare gli Australian Open che partono lunedì 8 febbraio, ha causato qualche malumore nel popolo. Ci sono australiani che, da quasi un anno, non riescono a tornare a casa nonostante i nuovi positivi siano, in media, meno di dieci alla settimana; che ci si sia sobbarcati le spese di quarantena per avvantaggiare atleti stranieri non è piaciuto. Ma la scelta ha salvaguardato un evento intorno a cui girano affari per quasi 500 milioni di dollari australiani, circa 290 milioni di euro. Nella fase recessiva del virus, lo scorso autunno, tutti gli Stati australiani hanno dichiarato che avrebbero riaperto le frontiere tra loro - e col Victoria, quello più colpito dal covid – se e solo se, per 28 giorni consecutivi, ci fossero stati zero casi di nuovi positivi. Missione compiuta.

Ristori australiani

È proprio salvaguardando, fin dall’inizio, il tesoro del controllo capillare del contagio, che dall’Australia arrivano le immagini stranianti di un mondo in piena esplosione estiva e open come il torneo di Melbourne: stadi pieni di gente, ressa nei ristoranti, negozi e piscine aperte, tutto senza mascherina e senza distanze. Liberi e felici: da morire d’invidia.

Ma non è solo la fortuna di essere in pochi dentro un’isola vastissima. Tra i programmi varati dal governo centrale per contrastare gli effetti nefasti sull’economia dell’emergenza sanitaria, il piano JobKeeper ha permesso alle aziende di versare il corrispettivo di circa 2.000 euro al mese a ciascun impiegato lasciato a casa, per via della diminuzione delle commesse e del lavoro. Si parla di sei milioni di cittadini. Tutti stanziamenti retroattivi, validi dal primo marzo 2020, la data-simbolo dello scoppio (diciamo così) dell’epidemia in Australia. Lo scorso anno, per la prima volta dal 1991, in Australia il Pil non è cresciuto: non solo per il virus, ma anche a causa dei vasti incendi di inizio 2020. Il sistema produttivo ha ricevuto non qualche mancia qua e là ma sostanziosi sgravi fiscali, con accordi nazionali sugli affitti per le attività commerciali. Con un pacchetto di misure simile, è stato più agile far metabolizzare ai cittadini una politica spietata contro il virus, opposta a quella ondivaga e umorale del nostro continente, in cui un giorno si è dato retta ai virologi, l’altro agli economisti, l’altro ancora alle opinioni personali di un leader politico, o a chi voleva salvare capra e cavolo e ha fatto sì che si perdessero entrambi. Laggiù, non appena si è capito che il programma di rientro dall’estero a maggio e giugno stava introducendo in società il virus - anche grazie a grottesche promiscuità tra gli ospiti degli hotel della quarantena e i controllori - si è reagito con lockdown durissimi. Si parlava recrudescenza della malattia per 400 casi alla settimana di media a Melbourne, città da cinque milioni di anime. Ciascuno era confinato in una bolla di 5 chilometri di raggio, e guai a uscirne. Certi casermoni popolari in cui si stava diffondendo il contagio, sono stati ghettizzati fino alla scomparsa del covid.

Mentre il primo ministro del Commonwealth, Scott Morrison, ha appena acquistato altri 10 milioni di dosi di vaccino Pfizer, portando le scorte alla cifra mostruosa di 150 milioni per assicurare protezione a tutta la regione del Pacifico compresi richiedenti asilo, rifugiati e titolari di Visa, le autorità sanitarie hanno già avvertito: una volta terminata la campagna vaccinale, nessun ingresso nel Paese sarà consentito senza i 14 giorni di isolamento perché, finora, manca la prova provata che la protezione individuale interrompa totalmente la trasmissione del virus. Per i nostri occhi, forse, è come obbligare a indossare guanti da fonderia per tenere in mano un quadrato di pizza. Per loro, è stato il modo di affrontare il covid.

Però non manca molto alla fine della partita, e loro hanno già vinto.    

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