Era l’ultima speranza per evitare che la più nefasta ignominia della storia giudiziaria italiana si perdesse nell’oblio. E – forse – c’è riuscita, per un pelo. La settimana scorsa sono stati depositati i materiali e le conclusioni dell’inchiesta sui risvolti di carattere nazionale del “depistaggio sul delitto del giudice Borsellino e della sua scorta”. L’inchiesta, la seconda sull’argomento, è stata voluta e realizzata da Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia dell’assemblea regionale siciliana; si è svolta negli ultimi quattro mesi, con 22 audizioni di persone “informate dei fatti” e l’acquisizione di materiale prezioso, dimenticato non si sa se volutamente o per banale incuria. (Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore di essere chiamato a partecipare ai lavori come consulente, per aver seguito la vicenda – in solitudine, purtroppo – da almeno un ventennio).

Stiamo parlando di fatti avvenuti 29 anni fa, tuttora avvolti nel mistero e nell’omertà delle più alte istituzioni statali; fatti che però contribuirono a cambiare il corso della storia italiana (sicuramente in peggio).

Il giudice Paolo Borsellino venne ucciso a Palermo la domenica 19 luglio 1992, 57 giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone. Le due stragi, vere e proprie azioni di guerra, attribuite a Cosa nostra, non hanno precedenti, né seguenti, in Europa. Non corrispondono solo alla volontà di uccidere due nemici, quanto di terrorizzare un’intera nazione: un’autostrada e un palazzo fatti saltare in aria; tre magistrati e otto poliziotti uccisi, cinque feriti. In queste azioni di guerra Cosa nostra non ebbe una sola perdita, né un intoppo nella loro realizzazione. Lo stato non se lo aspettava, ma subito dopo mandò l’esercito in Sicilia e instaurò il 41 bis nelle carceri, dove vennero trasferiti centinaia di boss. A gennaio 1993 venne arrestato “il capo dei capi” Riina, presentato come il responsabile di tutto, ma per tutto l’anno si susseguirono attentati dinamitardi ed uccisioni che fecero pensare che l’Italia fosse sull’orlo di un colpo di stato. Nel marzo del 1994, alle elezioni politiche, invece della sinistra, candidata favorita e molto impegnata sul tema della lotta alla mafia, vinse la Forza Italia di Silvio Berlusconi che certo non aveva la lotta alla mafia nella sua agenda.

La pista Scarantino

A luglio 1994, con grande clamore, il procuratore di Caltanissetta annunciò che il delitto Borsellino era risolto: era stato Vincenzo Scarantino, uno scimunito di quartiere, insieme ad un’accolita di poveracci a fare tutto. Solo quindici anni dopo – casualmente, o forse perché ormai i tempi erano maturi? - si seppe che era tutto falso, e una dozzina di innocenti fu liberata (in silenzio, però). Ancora oggi non si sa chi ha ucciso Borsellino; e naturalmente non si sa (meglio: non si vuole sapere) perché sia stata organizzata la falsa pista. Ci sono, in verità, processi in corso, a carico di poliziotti che “gestirono” il pentito Scarantino (ovvero autorizzarono le torture cui fu sottoposto, insieme ai suoi correi), ma sono minuzie e con ogni probabilità finiranno in niente. In 29 anni, da parte della magistratura che ha diretto, avallato o coperto il depistaggio non si è mai alzata una voce per denunciare lo scandalo. Piuttosto, molte carriere – e non piccole – si sono costruite su quell’inganno.

Ma veniamo al lavoro della “commissione Fava”. Da una parte si è dedicata, con le testimonianze di importanti testimoni dell’epoca: ministri, magistrati, membri del Csm, a ricostruire la catena di comando che portò al depistaggio. Che andò così: le indagini, fin dalla sera del delitto, vennero affidate dal capo della polizia Parisi ai servizi segreti (Sisde) nella persona di Bruno Contrada; procedura contro la legge. Poi – per decisione del governo nazionale – al capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera (anch’egli membro dei servizi), estromettendo i più valenti investigatori, peraltro collaboratori stretti di Falcone e Borsellino.

Si trattò, nei fatti, di un “colpo di stato” all’interno delle indagini. La Barbera usò metodi “sudamericani” (in una eccezionale testimonianza, il detenuto Vincenzo Pipino li ha raccontati, con tanto di particolari grotteschi), riuscì a subornare magistrati che si occupavano del caso, e soprattutto eliminò dalla scena tutte le piste alternative. E dire che queste erano cospicue.

La Commissione Fava, per esempio, ha riportato alla luce un rapporto della Dia (allora direttore Pippo Micalizio) di inquadramento generale della stagione delle stragi, che venne inviato a tutte le procure interessate all’inizio del 1994. Il testo fa venire i brividi ancora adesso, perché la strategia di Cosa nostra viene inserita (con un quantità notevole di fonti di prova) all’interno di una strategia “economica e finanziaria” tesa a cambiare il volto del nostro paese. Si parla di nuovi partiti da costruire, delle trame massoniche e di quelle leghiste, dei collegamenti stretti tra mafia e servizi segreti e soprattutto della “finanziarizzazione” dell’industria dell’eroina di cui la mafia siciliana era all’epoca monopolista. Lo scenario è tanto realistico quanto pauroso: i soldi dell’eroina avevano conquistato l’economia italiana. Falcone e Borsellino furono uccisi perché l’avevano capito.

Il passato che non passa

Perché questa pista investigativa non fu seguita? Perché, per almeno dieci anni, tutte le istituzioni (dalla procura nazionale antimafia, alle Dda, al Csm, alla politica) bocciarono questa interpretazione? Lo dirà – chissà, tra un secolo? – la famosa Storia. Per adesso si può solo dire che il piccolo commissario La Barbera, il piccolo procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra (ambedue morti) furono funzionali a che la storia prendesse un altro corso. Solo gli ingenui sperano che ci sia un “pentito” tra i magistrati che hanno assistito allo scempio, in vita e in morte, di Paolo Borsellino. (Tra le audizioni è stata particolarmente drammatica quella di Bruno Contrada, un lucidissimo 92enne dal volto scavato, un Re Lear gentile; Contrada fu il dirigente del Sisde prima nominato dominus dell’indagine Borsellino e poi arrestato nel dicembre 1992, protagonista di una trentennale vicenda giudiziaria da cui è uscito assolto).

Tutte queste storie del secolo scorso possono risultare attraenti quanto le colpe degli ammiragli del Savoia alla battaglia di Lissa (1866) su cui si appassionarono i nostri bisnonni, ma forse questa volta è diverso. Durante i lavori della commissione, ci si è imbattuti nel passato che non passa. Era infatti stato pubblicato un libro importante, in cui si diceva finalmente la verità sul delitto Borsellino.

Michele Santoro (e chi non lo ricorda?) aveva raccolto le confessioni di Maurizio Avola, un killer catanese, chiacchierino da trent’anni, considerato un fanfarone, sedicente autore di 80 omicidi. Si era dimenticato il più importante; e infatti confida a Santoro che l’omicidio Borsellino l’ha fatto lui! È una cosa ridicola, con particolari da film di serie C: ero vestito da poliziotto, eravamo pronti anche con i bazooka – che Avola aveva cercato già di smerciare, ma Santoro ci casca con tutti due i piedi. Non solo, ma va in tutte le televisioni a dire che lui ha scoperto finalmente la verità, e fa me culpa per aver sospettato che ci potesse essere lo zampino di Berlusconi o addirittura lo stato…. No, no, credetemi! implora Santoro. È stata solo la mafia, me l’ha detto Avola!

La testimonianza di Avola

Ricorderò per un bel po’ la testimonianza alla Commissione Fava dell’agente di polizia Antonio Vullo, l’unico scampato alla strage di via D’Amelio. Spiegò che tutto quello che raccontava Avola era falso, perché lui era lì, aveva visto, sapeva, conosceva metro per metro quella scena, il prima, il durante e il dopo, aveva visto la morte in faccia, era tornato innumerevoli volte a ricordare i suoi colleghi uccisi. Ma l’agente Vullo, in 29 anni, non era mai stato sentito. Avola mentiva, era chiaro. Come Scarantino trent’anni fa. Ma lo scimunito Scarantino, oggi si sa, fin nei minimi dettagli, era stato imbeccato, preparato, torturato per giocare quella parte così importante. Oggi, chi imbecca quel vecchio arnese di Maurizio Avola? Perché? Perché questo depistaggio è eterno? Che cosa c’è di così pauroso, di così indicibile nel delitto Borsellino?

Oggi ci saranno le celebrazioni rituali del 19 luglio 1992. Nessuno saprà cosa dire.

(La relazione, le appendici, le conclusioni della Commissione sono pubbliche e richiedibili presso l’Assemblea regionale siciliana).

 

© Riproduzione riservata