Come già accaduto in passato in occasione di altri gravi incidenti nel settore dei trasporti, la tragedia della funivia di Stresa ha riportato sul banco degli imputati le privatizzazioni e la “logica del profitto”.

Il ragionamento, ridotto all’osso, è il seguente: le imprese per contenere i costi e massimizzare i profitti tagliano sulle spese per la manutenzione, non ottemperano alle norme relative alla sicurezza e determinano così un incremento del rischio di incidenti.

Il quadro che sembra emergere è quello di un sistema allo sbando da trasformare radicalmente in quanto non in grado di garantire adeguate condizioni di sicurezza quando ci spostiamo.

Il considerare il solo incentivo di breve termine per un soggetto privato porta però a trascurare un altro fattore che opera in direzione opposta: il verificarsi di un incidente determina un grave danno reputazionale con conseguenze negative nel medio termine sulla profittabilità di un’impresa e, in alcuni casi, ne minaccia l’esistenza stessa.

Inoltre, volendo trarre indicazioni in merito a quale assetto proprietario e regolatorio fornisca le migliori garanzie non appare corretto trarre conclusioni da episodi singoli ma si dovrebbe considerare un sistema nel suo complesso e nell’arco di un lungo arco temporale. A metà degli anni ’90 dello scorso secolo, le riforme attuate Europa e nel resto del mondo hanno portato a un coinvolgimento più forte di operatori privati nei trasporti. Quali sono state le conseguenze per la sicurezza?

Partiamo dal caso forse più dibattuto, quello della privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito. La pubblicistica che ne tratta è piuttosto uniforme: è stato un disastro. La realtà è però un'altra. Come evidenziato in un paper di Andrew Evans dell’Imperial College di Londra, il tasso di mortalità del trasporto ferroviario in ciascuno dei primi dieci anni successivi alla riforma è risultato inferiore a quello che ci si sarebbe potuti attendere sulla base del trend pre-esistente.

Ulteriori progressi sono stati compiuti negli anni successivi e nel decennio tra il 2009 e il 2018 le ferrovie britanniche sono risultate tra le più sicure d’Europa con un tasso di mortalità molto al di sotto di quello di tutti gli altri maggiori Paesi.

Quello del trasporto aereo è un altro settore che ha visto restringersi il ruolo dello Stato e il dispiegarsi di una forte concorrenza tra operatori, con fortissime riduzioni di prezzo e condizioni di lavoro senza dubbio più impegnative per i dipendenti rispetto all’epoca dei monopoli nazionali. Non vi è alcuna evidenza che questo abbia nuociuto alla sicurezza.

La storica diminuzione del tasso di mortalità è proseguita senza soluzione di continuità dopo le riforme degli anni ’90: il numero di incidenti mortali rapportato ai voli effettuati nel 2019 è risultato pari a circa un sesto rispetto al 2000 (e a meno di un centesimo rispetto al 1960).

E veniamo all’Italia, alla privatizzazione delle autostrade. Il crollo del “Morandi” con 43 morti nel 2018 e, cinque anni prima, la fuoriuscita di un autobus sulla A16 che provocò 38 vittime hanno portato molti a denunciare il fallimento della gestione affidata a un soggetto privato. Anche in questo caso però, una visione di insieme che tiene conto di tutti i rischi cui si espone chi si sposta in autostrada restituisce un quadro diverso.

Nel 2000 si registrarono sulla rete data in concessione ad Autostrade 589 morti: ogni mese un numero di vittime superiore a quello causato dalla caduta del viadotto sul Polcevera. Nel 2017 le persone che hanno perso la vita sono state 228, quasi 2/3 in meno. Parte di questo risultato è merito delle case automobilistiche ma un contributo è venuto anche dal miglioramento delle condizioni della infrastruttura e dall’implementazione del sistema “Tutor” per il controllo della velocità dei veicoli. Come termine di paragone, nello stesso periodo sulle strade ordinarie il numero di decessi è diminuito da 6.562 a 3.200 (-52%). Se sulla rete pubblica si fosse registrato un trend analogo a quello delle autostrade, il numero di vittime sarebbe risultato inferiore di altre 700 unità.

In sintesi: vi sono possibilità di intervenire per accrescere ulteriormente il livello di sicurezza dei trasporti (con riferimento al caso di Stresa, ad esempio, si potrebbe ipotizzare una procedura che impedisca la circolazione della vettura con persone a bordo nel caso di inserimento del famigerato “forchettone”) ma è indubbio che la situazione odierna sia nel complesso molto migliore di quella del passato. La priorità assoluta di intervento dovrebbe essere quella che riguarda i diffusi comportamenti degli automobilisti non conformi al codice della strada. Lo stillicidio di vittime di incidenti è “meno televisivo” di rari eventi gravissimi ma è lì che si annida il rischio di gran lunga maggiore. Proclami di rivoluzione dell’attuale assetto organizzativo rischiano invece essere controproducenti perché farebbero venire meno uno degli incentivi, quello del profitto, che l’esperienza passata sembra mostrarci agire nel complesso a favore della sicurezza. L’esempio più eclatante è forse quello di Ryanair: un patron, Michael O’Leary, “avido”, prezzi bassi per i viaggiatori, elevata profittabilità e, al contempo, un invidiabile standard di sicurezza garantito da più di trenta anni a centinaia di milioni di passeggeri.

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