«Nessuno di regione Lombardia mi ha mai sollecitato a intervenire sul Comitato tecnico scientifico (Cts) per l’adozione della zona rossa in modo diretto. Io, invece, in Cts ho proposto di fare una zona rossa allargata a tutta la regione Lombardia. Questa mia dichiarazione non è stata verbalizzata». Queste poche righe aiutano a capire i vari gradi di responsabilità, dalla regione al governo. I magistrati della procura di Bergamo hanno sentito centinaia di testimoni oltreché raccolto una mole impressionante di documenti, chat, messaggi e mail.

Tra i verbali utili a ricostruire la gestione della prima fase della pandemia in Lombardia c’è quello di Alberto Zoli, direttore generale dell'Azienda regionale emergenza urgenza (Areu). Il dirigente è stato membro del Comitato tecnico scientifico (Cts) costituito dal governo di Giuseppe Conte ma anche parte attiva nella task force istituita da regione Lombardia. È stato dunque testimone diretto delle scelte regionali e nazionali fatte a partire dalla fine di febbraio 2020, il trait d’union tra governo e regione Lombardia nella fase cruciale in cui il virus ha potuto circolare liberamente, senza trovare ostacoli.

La testimonianza di Zoli, raccolta dai magistrati di Bergamo, rivela che gli scenari catastrofici presentati al governo e al comitato tecnico scientifico il 12 febbraio 2020 dal matematico della Fondazione Bruno Kessler, Stefano Merler, erano stati resi noti dopo il 21 febbraio 2020 ai vertici regionali nell’ambito dell’unità di crisi.

È una dichiarazione agli atti che smentisce la narrazione di Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia, che ha sempre sostenuto di non aver mai ricevuto informazioni in merito a questi dati, alla base del successivo piano Covid, in quanto coperti dal vincolo di riservatezza.

L’indagine

Fontana è accusato di epidemia colposa aggravata e di omicidio colposo insieme a Giuseppe Conte, all’epoca presidente del consiglio. Per la seconda ipotesi di reato insieme a loro due sono sotto inchiesta altre dieci persone: dall’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, all’assessore al Welfare del tempo, Giulio Gallera, fino al gruppo di esperti del Cts, al presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, e altri medici come Andrea Urbani, direttore generale della Programmazione al ministero della Salute.

Per Conte e Speranza i magistrati di Bergamo hanno inviato gli atti al tribunale dei ministri, in quanto all’epoca del presunto reato commesso ricoprivano ruoli di governo. In totale gli indagati sono 19, i reati contestati a vario titolo vanno dall’epidemia colposa al falso fino, appunto, all’omicidio colposo.

L’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e condotta dalla guardia di Finanza è durata tre anni. E si divide in tre filoni: la gestione dei casi Covid all’interno dell’ospedale di Alzano Lombardo; la mancata zona rossa in Val Seriana; e la mancata attuazione del piano pandemico regionale e nazionale. 

Scaricabarile

Partiamo dalla contestazione rivolta dai pm a Fontana. Nell’avviso di conclusione delle indagini si legge che «in cooperazione con gli indagati e con Giuseppe Conte e in qualità di presidente della regione Lombardia ha omesso di adottare misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione e in particolare le misure corrispondenti all’istituzione di una zona rossa nei comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indice di contagio avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in gravi difficoltà per il numero di casi registrati e per il numero di contagi tra il personale sanitario».

Secondo gli inquirenti, perciò, Fontana «cagionava così la diffusione dell’epidemia da Sars-Cov-19 in Val Seriana mediante un incremento stimato non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo, di cui 55 nel comune di Alzano Lombardo e a 108 a Nembro, rispetto all’eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020». 

Il presidente si è sempre difeso, anche quando è stato sentito in qualità di testimone dalla procura, spiegando che la regione non aveva il potere in quel momento di muoversi in autonomia per decidere eventuali misure così drastiche.

Nel verbale, rivelato da Domani, il presidente riversa ogni responsabilità sul governo, e basa la sua convinzione su una circolare della ministra dell’Interno dell’epoca, Luciana Lamorgese. «Sulla zona rossa la presidenza del consiglio ha rappresentato che se la regione avesse voluto poteva istituirla in maniera autonoma, qual è la sua valutazione?», chiedono i pm a Fontana nel maggio 2020.

«Preciso che c’è stata una direttiva dell’8 marzo 2020 del ministro Lamorgese indirizzata ai prefetti che prevedeva che l’istituzione della zona rossa era competenza esclusiva del governo; è vero anche che il presidente della regione non ha a disposizione adeguate forze pubbliche per garantire l’esecuzione e il rispetto dei limiti alla circolazione delle persone nell’ambito di una zona blindata», ha replicato Fontana.

Chi indaga, invece, ritiene che regione Lombardia avrebbe potuto agire senza alcun problema. E su queste visioni contrapposte legali e pm combatteranno una battaglia durissima. Di certo sarà complicato ribaltare la versione di Lamorgese che, sentita dai pm, come raccontato dal nostro giornale, ha assicurato che la direttiva in questione non impediva alla regione di imporre autonomamente zone rosse e “blindature” delle aree. 

Zone rosse e bugie

Al di là delle strategie della difesa e dell’accusa, di un fatto sono certi i magistrati. Fontana tra il 26 e il 28 febbraio 2020 era a conoscenza dei dati sui contagi. E nonostante la consapevolezza che «l’indice di contagio avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in gravi difficoltà per il numero di casi registrati e per il numero di contagi tra il personale sanitario», il presidente in quegli stessi giorni, invece di scrivere al governo e alla protezione civile per chiudere la Val Seriana, inviava una mail in cui chiedeva di mantenere le misure precedenti, più blande, previste della zona gialla.

Questa scelta è stata giustificata dai vertici regionali, e da Fontana, spiegando che non avevano contezza degli scenari catastrofici prodotti da Merler. Un autorevole studio sulla diffusione del coronavirus in Italia, che prevedeva fino a 70 mila vittime, presentato a Roma davanti al Cts il 12 febbraio 2020 e diventato una bussola per le autorità sanitarie per orientarsi in quelle settimane caotiche di una guerra contro un nemico sconosciuto.

Il modello presentato da Merler indicava che per mitigare l’impatto bisognava arginare la diffusione del virus applicando tempestivamente rigide misure di distanziamento sociale, come la “zona rossa”. Zoli ha partecipato a quella presentazione e ha confermato agli inquirenti di aver condiviso questi scenari con l’Unità di crisi di regione Lombardia. «Successivamente, dal 20/21 febbraio 2020 ne ho discusso con i vari gruppi costituiti all’interno dell’unità di crisi. I gruppi prendevano atto delle possibile azioni da mettere in campo», si legge nel verbale agli atti dell’indagine che riassume la testimonianza di Zoli in procura.

Nell’unità di crisi erano presenti spesso i vertici politici della regione, incluso Fontana e l’assessore Gallera. «Si è mai confrontato con i vertici welfare della Regione sui provvedimenti da adottare ed, in particolare, sull’istituzione di zone rosse in Lombardia?», chiedono i pm a Zoli.

La risposta del dirigente è affermativa, «mi sono confrontato all’interno dell’unità di crisi, dove spesso partecipavano attivamente anche l’assessore Gallera, il presidente Fontana, l’assessore al Bilancio Caparini, il vice presidente Fabrizio Sala, il segretario generale e ovviamente anche Cajazzo, direttore generale del Welfare».

Se Zoli al cospetto dei magistrati fornisce questa versione, pubblicamente aveva sempre affermato il contrario, ovvero di non aver mai parlato con la giunta Fontana di questi numeri, per un patto di riservatezza sottoscritto con i membri del Comitato tecnico scientifico. Fontana dal canto suo ha sempre confermato questa tesi, ribadendo di non aver mai avuto accesso a quelle informazioni.

Nella relazione finale di maggioranza della Commissione regionale d’inchiesta sull’emergenza sanitaria, conclusasi nell’aprile del 2022, si legge: «Zoli nulla aveva rivelato a regione Lombardia, avendo assunto precisi obblighi di riservatezza». E ancora: «Ciò che è gravissimo è che il Cts abbia elaborato un piano di risposta al covid senza informare le regioni e abbia occultato alle regioni stesse le proiezioni drammatiche del prof. Merler del 12 febbraio». 

Una affermazione smentita dalla testimonianza di Zoli: la giunta lombarda era stata messa al corrente degli scenari apocalittici a partire dal 21 febbraio. Ma nonostante la consapevolezza dello tsunami in arrivo, il 28 febbraio Fontana scriverà alla protezione civile e al governo per chiedere il mantenimento in Lombardia della zona gialla. Il virus nel frattempo era entrato ovunque nelle case della provincia di Bergamo. Pronto per compiere la sua strage silenziosa.

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