«Non siamo in guerra per seguire un destino bellico, vogliamo tutti la pace», ha detto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, alla conclusione del Consiglio europeo a Bruxelles, lo scorso 25 marzo, e poi lo ha ribadito via Twitter. Ma davvero “siamo in guerra”?

Lo stato di guerra

Ai sensi della Costituzione, lo stato di guerra è deliberato dalle camere, che «conferiscono al governo i poteri necessari» (art. 78), mentre il presidente della Repubblica, nella propria veste di garante dell’unità nazionale, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle camere (art. 87, c. 9). Pertanto, il governo non può decidere in autonomia tale stato, né arrogarsi i relativi poteri, considerate anche le conseguenze che ne discendono, previste dalla Costituzione – come la proroga delle camere (art. 60) o l’attivazione dei tribunali militari (art. 103, c. 3) – oltre che da norme civilistiche e penalistiche.

Entrambe le disposizioni sullo stato di guerra vanno lette congiuntamente a quella per cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» alternativo a quello negoziale; «consente limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (art. 11 Cost.). La scelta in favore della pace rappresenta un indirizzo per la politica degli organi di governo, ma non comporta una posizione di neutralità permanente.

Non si spiega, altrimenti, come mai la Costituzione stessa preveda la deliberazione dello stato di guerra, nonché il rispetto di accordi internazionali a scopo di sicurezza collettiva di cui l’Italia è parte, ai sensi dei quali è legittimo l’intervento armato a fini di autotutela o in soccorso di uno stato che abbia subito un’aggressione (art. 51 della carta delle Nazioni unite, art. 5 trattato Nato). Dunque, la guerra ammessa dalla Costituzione è solo quella difensiva o derivante dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali a carattere difensivo.

Finora l’Italia non ha mai fatto ricorso alle citate disposizioni sullo stato di guerra. Nemmeno per la partecipazione a missioni internazionali della Nato, in occasione delle quali è stata attivata la clausola di sicurezza collettiva prevista dal relativo trattato, mediante una decisione adottata dal governo con decreto legge. La situazione relativa al conflitto in atto è, tuttavia, diversa.

L’Italia e la guerra in Ucraina

Dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, il governo ha emanato due decreti legge. Con il primo, si fornisce equipaggiamento “non letale” all’Ucraina, nonché supporto militare in favore della Nato, rafforzando la presenza dell’Italia nell’àmbito delle misure poste in essere dalla stessa Nato nel territorio degli stati membri, a fini di deterrenza rispetto alla minaccia russa (d.l. n. 14/2022). Con il secondo decreto, si inviano all’Ucraina «mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari» (d.l n. 16/2022). I poteri attuativi di questa disposizione sono stati affidati – previa risoluzione delle camere – al ministro della Difesa, affinché provveda con decreto interministeriale all’individuazione del materiale bellico oggetto della cessione.

La cessione di questo materiale all’Ucraina, assunta “nel contesto della Nato”, ma al di fuori di una missione della Nato, può essere qualificata come partecipazione attiva al conflitto stesso? Cioè l’Italia può dirsi in guerra, come le parole di Mario Draghi indurrebbero a pensare? Se così fosse, prima dell’invio di armi all’Ucraina si sarebbe dovuto applicare il meccanismo, sopra spiegato, previsto dalla Costituzione per lo stato di guerra. Il governo, infatti, non sarebbe stato legittimato ad agire in mancanza della deliberazione di tale stato da parte delle camere, con l’attribuzione all’esecutivo dei “poteri necessari”. E di certo non può essere qualificata come tale la decisione del parlamento a favore della cessione di armi – definita come “atto di indirizzo” - a seguito del relativo decreto legge.

L’invio di materiale bellico all’Ucraina va inquadrato in modo diverso.

L’invio di armi all’Ucraina

Il supporto italiano all’Ucraina si colloca nell’ambito della decisione adottata dall’Unione europea di un pacchetto di sostegno per finanziare l’invio di attrezzature e forniture alle forze armate ucraine, coperto dal cosiddetto “European peace facility” (Epf), strumento finalizzato a sostenere i costi, tra l’altro, di azioni operative nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (Pesc).

L’Italia non è parte di un conflitto, ma aderisce a una reazione collettiva su più piani – dalle sanzioni economiche alla cessione di armi – a seguito della violazione da parte della Federazione russa di princìpi di diritto internazionale (non uso della forza, inviolabilità delle frontiere, integrità territoriale degli stati ecc.), nonché di valori fondanti dell’Ue (quali dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani). In questo quadro, l’invio di armi non significa partecipazione a una guerra. 

Ma è una delle modalità con cui vengono ribaditi princìpi fondamentali dell’ordinamento internazionale, attraverso il supporto a un paese aggredito che esercita il diritto alla propria legittima difesa. Modalità che – come spiegato in un articolo precedente – è conforme alla Costituzione, nonché ai trattati internazionali.

Dunque, l’Italia non è in guerra, non c’è alcuna violazione costituzionale circa lo stato di guerra e, quando si parla di guerra, è bene che le parole siano pesate con cura.

La proposta di pace

Durante gli incontri negoziali del 29 marzo scorso, l’Ucraina ha proposto la costituzione di un gruppo di paesi garanti della pace, tra i quali dovrebbe esserci anche l’Italia. Il presupposto sarebbe lo stato di neutralità dell’Ucraina, con l’impegno dei garanti di mettere a disposizione assistenza militare, forze armate, armamenti, cieli chiusi, in caso di attacco, entro 24 ore dall’attacco stesso (da ciò il nome dell'iniziativa: U24, United for peace). Si riprodurrebbe così in scala minore il meccanismo previsto dal trattato della Nato (art. 5), ma senza l’entrata dell’Ucraina nella Nato, ormai esclusa, com’è noto.

L’Ucraina potrebbe godere di tutela anche se entrasse nell’Unione europea. In base al trattato sull’Unione europea (art. 42.7, TUE), infatti, qualora uno stato membro subisca un'aggressione armata, «gli altri stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso», in conformità alla Carta Onu (art. 51) e coerentemente agli impegni presi in àmbito Nato. Ma «ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni stati membri».

A differenza del trattato della Nato, la norma del Tue lascia margini di discrezionalità su “aiuto e assistenza”, anche in considerazione dei paesi neutrali. Tuttavia, siccome 21 dei 27 Paesi dell’Ue sono anche membri della Nato, il coordinamento di quest’ultima si azionerebbe comunque.

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