I diari del lupo solitario Anas: «La jihad mi ha cambiato»

Quando le Torri Gemelle sono cadute, ricordo che George Bush accusò i musulmani. E ovviamente eravamo noi i musulmani. Scrive nel diario sul suo pc – intercettato dalla Digos di Brescia – Anas El Abboubi, classe 1992, prima di essere arrestato e poi rilasciato e di fuggire infine in Siria per combattere contro il regime di Assad. Oggi è un ricercato internazionale. Dal 2014 si sono perse le sue tracce, ma restano le impronte della sua storia di formazione, quella di un bambino che a sette anni da Marrakech arriva a Vobarno, un paesino sui monti bresciani, vive il razzismo, vede la fatica del padre. Crescendo, cerca una voce nel rap, poi lo rinnega e trova in Allah la salvezza e nella guerra contro l’Occidente il suo posto nel mondo. Grazie a pagine di diario, fascicoli di indagine della Digos, intercettazioni telematiche e riprese video realizzate da 42°Parallelo, la società che ha scoperto Anas con il suo rap nel 2011, possiamo compiere un’indagine nella mente di un jihadista. A dieci anni dagli attentati di Parigi, con l’assalto al concerto in corso al Bataclan, la storia di Anas ci ricorda l’importanza di capire i termini e le precondizioni in cui si forma e matura l’esperienza jihadista nel cuore dell’Europa. Bataclan tra vendetta e oblio: così l’attentato di Parigi ha cambiato la vita dei francesi Rap e razzismo In quinta elementare – continua il suo diario – qualcosa si è trasformato in me. Prima del 25 dicembre dovevamo scrivere un pensiero per i morti dell’11 settembre e io mi sentivo un incolpato perché i bambini in classe chiedevano se anch’io fossi musulmano. È il 2011. Anas cammina lungo un ponticello che si spegne dentro una montagna verde. Gesticola, le braccia per aria, come in un sobborgo di Nyc: «Dove vivrà Kaliff, il rapper con il flow da Bronx? In montagna con Heidi!». Poi racconta: «Ho fatto un album che si chiama ghetti morali». Per lui Vobarno non è un ghetto di palazzoni: «Tu sei diverso e ti isoli moralmente dagli altri. I discorsi che tu fai nella tua zona, gli altri non li fanno dall’altra parte». Anas impasta una lingua amara: «Non ti vogliono. È una sensazione con cui cresci ovunque tu vai. Per loro sei il marocchino, sei sporco, poveraccio». Continua senza abbassare lo sguardo: «Mio padre è operaio, quindi io devo diventare imprenditore. È inutile la fatica di mio padre se poi faccio lo stesso percorso. Io devo diventare qualcuno». Alle elementari ascoltavo le prime cassette rap. Soprattutto Eminem, il mio idolo. Che Allah mi perdoni. Ho influenzato tutta la scuola. Nel mio paesino di montagna immaginavo il Bronx e volevo realizzarlo. Ero sempre preso a fare risse. I razzisti mi detestavano e io li insultavo. La jihad Anas prega nella sua stanza. Racconta che l’islam lo ha cambiato. La sua voce adesso è calma: «Ho trovato nell’Islam un modo per potermi nominare. L’Islam mi ha dato una nuova vita, mi ha fatto da mamma». È sempre il 2011. Il suo Islam riesce ancora a dialogare con il rap in un ritmo per lui inedito. La jihad è ancora una lotta interiore: «Io amo fare la jihad. La jihad non è uccidere gli occidentali. Jihad vuol dire combattere contro te stesso, contro il male dentro di te. Questa è la più grande guerra che un uomo possa fare». E qui la telecamera va a nero. Un buco silenzioso di un anno in cui di Anas non ci sono tracce. Ricomparirà nel settembre del 2012 in questura a Brescia, vestito di bianco con un turbante in testa, per chiedere come organizzare una protesta contro il film sulla vita di Maometto sulla scia delle violente manifestazioni esplose nel mondo islamico. In quella occasione Anas comunica al poliziotto la volontà di bruciare la bandiera di Israele. Da quel momento la Polizia avvia un’indagine telematica su El Abboubi Anas, nato a Marrakech nel 1992 e residente in Vobarno. Gli agenti entrano così nella mente del ragazzo e nel suo viaggio di formazione come jihadista mentre cerca di indirizzare il suo odio prima che da questo ne venga divorato. A scuola andavo male. Ero molto aggressivo. Ero distratto, cieco dalla voglia di scomparire e apparire una stella brillante. Dieci anni dal Bataclan, il dovere del ricordo e l’equilibrio (difficile) tra sicurezza e libertà La formazione Il 25 settembre 2012, Anas scrive su Facebook: «Se difendere la propria identità è “terrorismo”, allora, davanti a ogni nome islamico all’anagrafe, aggiungete RICERCATO. Perché mai silenzieremo». Il giorno dopo, un nuovo post: «La Palestina non ha bisogno di parole ma di sangue». A novembre pubblica su Facebook il file «Le 44 vie per supportare la jihad» dove esprime l’urgenza della lotta armata contro il nemico. Il 26 novembre cambia la copertina del suo profilo con la scritta: Soldier of Allah. Il 5 dicembre scrive: «Ho una voglia tremenda di uccidere ebrei…vabbè, pazienza, mangerò un dolce». A febbraio del 2013 è in chat con esponenti dell’estremismo islamico internazionale per chiedere incontri con Fouad Belkacem di Sharia4Belgium e con Al-Gharib del gruppo tedesco Millatu Ibrahim. In chat con un informatore arabo Anas scrive che non sa come usare l’applicazione Paltalk dove l’estremista Muhammed Omar Bakri di Islam4UK tiene le sue lezioni: «Scusami – precisa – sono italiano». Il 10 marzo cerca su Youtube video su come creare una miccia con l’acetato di piombo e come preparare plastico alla nitroglicerina mediante acido solforico, acido nitrico e farina di avena. Insomma, come preparare un esplosivo. Poi cerca video su come caricare un Ak47 e una Ruger P90. Infine, compie un sopralluogo virtuale nella caserma militare Goito di Brescia. Infiltrandosi nel suo computer, la polizia si imbatte in una preghiera scritta da Anas: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata. Ho sete di battaglia, jihad contro l’Italia». Nel fascicolo gli investigatori concludono: «Il profilo di El Abboubi Anas combacia con quello del lupo solitario, la figura dell’estremista in grado di compiere attentati in modo autonomo senza indicazioni ricevute da una leadership». Io avevo voglia di provare il gusto della perdita. Sono convinto di essere stato un esperimento. Ero una vittima, giuro su Allah che ero una vittima. Verso la Siria All’alba del 12 giugno 2013 la polizia entra in casa di Anas per arrestarlo. Uno degli investigatori gira un video. È un’operazione silenziosa, nessuna concitazione. Un agente prende un foglio dalla sua scrivania: «L’occhio anche se vede non può giudicare. Scritto tu?». «Sì, ti piace?». «Molto bello. Come mai scrivi sempre in italiano?». «L’arabo lo sto studiando. Non lo parlo bene». Gli investigatori lasciano ad Anas un momento per pregare prima di portarlo via. Dopo tredici giorni, però, il tribunale del riesame di Brescia dispone la sua scarcerazione. Ad agosto Anas consegue il diploma di elettrotecnico. Il 14 settembre ritira il passaporto e alle ore 16 è all’aeroporto di Milano Malpensa dove si imbarca su un volo con destinazione Istanbul. Il 16 settembre, la sua utenza telefonica si aggancia in Siria. Scrive un post: «Libero di correre come una rondine nel cielo». Perché l’Europa ha smesso di tenersi per mano Dalle chat emerge l’arruolamento di Anas nell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) tra i jihadisti impegnati contro il regime di Assad. A ottobre posta foto con in pugno armi automatiche e la scritta: «Siamo venuti per uccidervi uno ad uno». Il 14 dicembre, l’ultimo scatto: nella Siria innevata Anas indossa una giberna e ostenta un Ak47 in una mano e una bandiera nera nell’altra. Su Facebook alla voce lavoro è presente la dicitura jihad. Quando ho saputo della mia bocciatura, sono giunto a un fallimento totale di tutti i miei sogni. Allah è grande e questo era il suo avvertimento. I sogni e le illusioni non portano a nessuna vera realtà. Ero solo un bambino. Il 9 febbraio 2014, gli investigatori intercettano una telefonata. Il padre chiede di poter parlare con “Abu Rawaha, l’italiano”, il nome di battaglia di Anas. “Non vuoi tornare?” “Lo chiami modo di vita quello là? Vivi con loro come un cane, maledetti”. Un mese prima, invece, è al telefono con la madre. “Ci sono solo spari e missili e turni di guardia”. “Oh, figliolo, sei in mezzo all’inferno”. “Cosa dicono alla televisione?” “Non si distingue più il male dal bene”. “Come sta mio padre?” “È andato a dormire, era stanco dal lavoro”. “Ci sono novità?” “Nessuna. La novità sei tu”. Anas è la novità con le prime canzoni rap alle elementari, con la musica dei ghetti morali, con la voglia di andare oltre la fatica del padre, con il bisogno di cercare nella jihad una rinascita. È il marocchino a Vobarno, l’italiano in Siria. Adesso forse è nella sua Marrakech, un tutt’uno con la polvere rossa delle strade. Forse è diventato neve sulle alture siriane. O è un manto verde tra i monti del suo vecchio Bronx. Forse, invece, Anas spunta tutte le notti sulle nostre teste e ci resta fino alle prime luci dell’alba. Con la sua voglia di scomparire e apparire una stella brillante.