L’esonero di Thiago Motta è il quarto indizio: la storia del club bianconero è fatta di crisi di rigetto verso gli allenatori ingaggiati come portatori di un’idea di calcio raffinato. Era già successo con Pirlo, Sarri e trent’anni fa con Maifredi. Che dice: «Voleva fare un copia incolla dell’anno prima, ma la Juventus è altra cosa». Al posto di Motta per quattro mesi Tudor, e poi la restaurazione
Vincere non è importante. È l’unica cosa che conta. Lo avevano scritto su uno striscione, poi è diventato un modo di essere. Una questione di stile. Alla Juventus non c’è spazio per essere chic. Figuriamoci per ricamare calcio. Meglio di tutti lo ha detto una volta Edgar Davids, in bianconero dal 1997 al 2004, oltre 200 presenze in carriera, uno che alle cose non ci ha mai girato tanto intorno: «È molto semplice: alla Juventus devi vincere. Quando non sei in grado di farlo prendi la valigia e te ne vai».
Così ha fatto Thiago Motta, 42 anni, il profeta di un altro calcio. Bello per molti, fumoso per altri. Per tutti, comunque, uno non proprio da Juventus. Voleva una squadra all’altezza delle sue aspirazioni e invece si è ritrovato a predicare nel deserto. Alla conferenza stampa di presentazione disse addirittura di volere un gruppo felice. «Orgoglioso e felice».
È finita agli stracci: nessuno lo voleva più, qualcuno non lo aveva mai voluto. Al suo posto è arrivato Igor Tudor, l’usato sicuro, uno che conosce la città, che nella Juventus ci ha giocato, e sa che cos’è lo stile bianconero. Ma l’esonero di Motta, il nono della storia juventina a stagione in corso, non fa solamente rumore. Pone la questione del perché alla Juventus non ci sia lo spazio per gli esperimenti.
Capitò anche a Gigi Maifredi, forse il capostipite dei tecnici che cercarono di proporre innovazione e un calcio senza limiti. Finì male anche per lui. Ma il punto, dice Maifredi, «è che la Juve è una società che non ti dà tempo di transizione, vuole tutto e immediatamente. Vincere è un dogma. Questo è un bene, ma è anche un male».
Lo champagne di Maifredi
Non sono stati molti gli allenatori che hanno provato ad essere avanguardia nel corso della storia bianconera. Maifredi sì. Erano gli anni Novanta. Al Bologna aveva portato il suo calcio champagne, direttamente dall’Orceana e dall’Ospitaletto, bassa bresciana. Sotto le due torri era diventato in fretta un profeta: ma non erano soltanto bollicine, arrivarono anche i risultati.
Allegro (non spensierato), intelligente (non superficiale), preparato (non serioso), a distanza di tutti questi anni ci si chiede ancora se Maifredi fosse davvero un allenatore da Juventus. Spoiler: sì. Ma lo avevano pescato fuori dal perimetro, uno non proprio in stile Juve. Nel calcio contano i fatti.
«Quando devi ricominciare da zero hai bisogno di tempo. Invece alla Juve di tempo non ne hai. Soprattutto nel mio caso, dovevo cambiare in maniera drastica le cose. E pensavo di avere tempo», dice adesso Maifredi. Erano gli anni del Milan, di Sacchi che faceva furore. La Juventus non poteva restare indietro. Scelse Maifredi e quel suo modo frizzante di approcciarsi al calcio, lontanissimo dal mondo juventino.
«Alla ventesima di campionato o giù di lì eravamo secondi a un punto dalla Sampdoria. Andammo a giocare a Genova. Partita dominata, ma su rigore inventato. Andammo a tre punti dalla vetta. Ho visto il cambiamento di umore di certi dirigenti», racconta oggi Maifredi.
Era un’altra Italia, un’altra Serie A. Ci giocavano tutti i più bravi. E la Juventus portava avanti un suo credo, una sua sacralità, che nessuno poteva scalfire. L’errore costava caro.
Cosa non ha funzionato
C’è voluto di più, in fondo, per cacciare Thiago Motta. L’infortunio di Bremer aveva fatto crollare le certezze dei bianconeri che già nel weekend successivo contro il Cagliari avevano mostrato difficoltà. Da lì Thiago Motta non è più riuscito a ritrovare la sua squadra: sette capitani diversi, 39 formazioni in 42 partite. Un rapporto difficile con i leader.
Anche lui veniva dal Bologna, coincidenze o congiunzioni astrali. Credo, dice ancora Maifredi, «che con Thiago Motta la Juventus sia andata sul sicuro. Con me aveva cercato l’invenzione, il colpo ad effetto. Con Motta no. Il modo di giocare mio e di pochi altri è stato mutuato da tutti».
In molti hanno parlato di inesperienza, di un allenatore incapace di gestire una situazione ad alti livelli e delicata, addirittura di una evidente mancanza di carattere. A Bologna, un anno fa, Motta era riuscito nell’impresa di riportare la squadra in Champions dopo sessant’anni. Niente gli era girato storto. Né la gestione di Arnautovic (che poi ha replicato con Vlahovic) né la gestione delle partite. Una volta provarono a chiedergli di un cambiamento di modulo, se quello fosse un esperimento studiato. Motta si stizzì: «Io non faccio esperimenti».
Non li volevano nemmeno alla Juventus. Penso, dice ancora Maifredi, «che lui abbia fallito come persona e non come allenatore. Voleva fare un copia incolla dell’anno prima, ma la Juventus è altra cosa».
Che cos’è la Juventus, allora. Questo è il punto. Nel corso degli ultimi anni sono stati pochi gli allenatori portatori sani di un’idea diversa, certe volte complessa, cervellotica, astrusa. Non per forza innovativa, no. Ma comunque lontana dal senso pratico che la società ha sempre voluto. Maurizio Sarri era arrivato per portare un gioco spumeggiante. E lo stesso sublime Andrea Pirlo venne scelto perché ritenuto l’uomo del futuro: durò una stagione sola. Non meteore, ma idee non realizzate. Aspirazioni lasciate a metà.
I senza show
I grandi cicli bianconeri – quelli di Trapattoni, Lippi, Conte e Allegri – non avevano avuto bisogno di un lungo incipit, né di un’attesa estenuante. Erano stati capaci di vincere (e convincere) da subito. È questo che vogliono alla Juventus. Vincere è l’unica cosa che conta. Un calcio, il loro, concreto, spiccio, non proprio da show. O non sempre. È un’epoca, dice Maifredi, «basata sulla prestazione fisica. Un tempo contava la tecnica e poi mettevi insieme la fisicità. Adesso devi essere pronto sotto l’aspetto fisico e magari avere anche l’aspetto tecnico. Uno che corre bene può fare il giocatore. Una volta dovevi essere predisposto per fare il giocatore. È diverso».
Se questa è la morale, servono allenatori in grado di gestirla, tecnici in grado di saper tenere in mano la squadra, senza paura, e di farla rendere sul piano fisico. Motta non ci è riuscito. Ha mollato in fretta i giovani e spezzato il legame con i più anziani, i veterani. L’elenco degli errori è lungo: Danilo ceduto nel mercato di gennaio, Vlahovic che da bomber si è ritrovato a essere una riserva di lusso.
Gennaio poi che ha visto salutare anche Fagioli, Kean, Chiesa. E poi le eliminazioni contro Empoli in Coppa Italia e quella in Champions contro il Psv. Le sconfitte contro Atalanta e Fiorentina. In pratica: 18 vittorie su 42 partite, il 43% dei successi. Il terzo peggiore per rendimento alle spalle di Puppo e Delneri. Il ds Giuntoli adesso lo rinnega («Mi vergogno di averti portato alla Juventus»), anche se per Maifredi è lui «il maggiore indiziato di questo piccolo fallimento. Non lo è ancora. Lo sarà se la Juventus non andrà in Champions. Certo Giuntoli ha avallato questo tipo di rapporto con Motta. Voleva essere l’uomo importante. Per questo non è stato vicino ad Allegri». Uno più in stile Juve, questo è sicuro.
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