Pubblicità, dissero dallo studio. Così gli spettatori della Espn videro passare sotto gli occhi le meraviglie della più importante catena di fast fod messicano, mentre al Barclays Center di Brooklyn le squadre della NBA stavano continuando a scegliere i giocatori per il campionato 2014, erano arrivate ormai ai rincalzi, alle seconde linee. Fu in quel cono d’ombra, senza diretta tv, che i Nuggets pescarono come quarantunesimo nome su 60 un diciannovenne serbo di 2 metri e 11, atterrato in America fuori forma, pesava 136 chili, e nessuno in quel momento avrebbe osato dirlo una stella.

Nove anni dopo, Nikola Jokić è molte cose dentro un corpo solo. È il campione che ha portato la città di Denver alla prima finale per il titolo della sua storia, uno dei giocatori che sta cambiando lo stile e i confini della pallacanestro, uno di quei fenomeni che in America riescono a definire solo prendendo in prestito un termine dalla mitologia. Unicorni, li chiamano, questi uomini grandi e grossi, questi giganti a cui trent’anni fa potevi chiedere solo di fare a spallate, saltare per prendere rimbalzi, mentre adesso tirano da lontano, segnano, passano, palleggiano.

Chi è Jokić

Jokić è il re della tripla-doppia, significa che va in doppia cifra [sopra i 10] nei punti, negli assist e nei rimbalzi in una stessa partita. Non deve stare per forza dentro l’area, per graffiare. È prepotente e raffinato, trucido e morbido, di ferro e di seta. Tutto con l’aria dell’eroe per caso, di chi si trova da quelle parti senza volerlo. Il New York Times si è domandato quale sia la sua vera arte, perché si muove lento mentre gli altri sfrecciano, perché tiene la palla tra le mani come un pompelmo appena raccolto, perché ha braccia che sembrano ali di pterodattilo e «potrebbe serenamente inciampare mentre va a ritirare il giornale la domenica», ha scritto di lui Kurt Streeter. Eppure domina la Nba. Eppure gli basta ruotare su sé stesso, per spalancarsi il campo davanti, ma senza strappi, in modo zen. I più brutali sanno dirlo usando sei parole: è il più forte al mondo. 

Certamente è uno dei barbari invasori arrivati dall’estero per mettere fine all’impero americano. Negli ultimi cinque anni, la Nba ha eletto come miglior giocatore della stagione sempre uno straniero. Non era mai successo. Jokić è stato votato nel 2021 e nel 2022, stavolta è arrivato secondo dietro Joel Embiid, camerunese che gioca a Philadelphia, ma fuori dalla corsa per il titolo. Nel 2019 e nel 2020 il preferito è stato Giannis Antetokounmpo, The Greek Freak che ha fatto grande Milwaukee, il mostro greco, ma fino a diciott’anni apolide, figlio di immigrati nigeriani, venditori ambulanti di borse e occhiali da sole alla periferia di Atene. Tutt’e tre con uno stesso corpo, sopra i 2 e 10 d’altezza, ma con una tecnica nelle mani che un tempo sarebbe appartenuta a un piccolo, una guardia.

In Nba stanno per vivere un altro incontro ravvicinato dello stesso tipo con Victor Wembanyama, 2 metri e 21, francese, 19 anni, il mese prossimo gli daranno una maglia a San Antonio. Così gli unicorni si stanno prendendo il gioco della pallacanestro nel paese che lo ha insegnato al mondo, la vecchia America che vede invecchiare i suoi campioni, i LeBron James e gli Steph Curry, nell’attesa che arrivi qualcuno a risvegliarla. 

Quando è iniziato tutto

In principio, noi europei siamo stati un tocco di folklore nelle loro faccende di nobili canestri. I primi che partirono e andarono a giocare dall’altra parte dell’Oceano, si consegnarono al destino di esser trattati come un diversivo pittoresco. I Phoenix Suns furono i pionieri. Fecero firmare per loro Georgi Glouchkov, un bulgaro. Lo accolsero nel settembre del 1985 distribuendo una cartellina alla stampa con un riassunto sulla storia del suo paese e un bignami di frasi nelle due lingue, per capirsi, What is this e The pen is on the table.

Esistevano ancora il muro di Berlino e la cortina di ferro, quando da Sofia giunse questo pregiudizio vivente, accompagnato nel suo viaggio da una specie di intermediario culturale, Bozhidar Takev, di mestiere: allenatore. I pignoli diranno che negli anni 40 c’era già stato Hank Biasatti, nato a Beano, provincia di Udine, ma in realtà era cresciuto in Ontario. Quando lasciò l’Europa, Georgi parlava poco l’inglese e impiegò meno di poco per abbracciare il disordine alimentare di caramelle e fast food. Aggiunse chili a quelli che si portava dietro, altrettanto all’improvviso cominciò a smaltirli.

A Phoenix non brillarono per pazienza. Ormai la mossa mediatica l’avevano fatta e lo rimandarono a casa. Il dio della compensazione gli fece trovare la sua America a Caserta, regalandogli la possibilità di spendere come moneta quelle tre magnifiche lettere [N-B-A] nei posti dove avrebbe continuato a far canestro, un anno a Piscinola e un altro anno a Isernia. 

L’invasione

È da sette anni che la Nba accoglie più di 100 giocatori dall’estero. Siamo arrivati al record di 120 da 40 paesi diversi nella stagione che sta per finire, con il Canada davanti a tutti [61 giocatori] e poi una fiumana dall’Europa, la Francia con 42 giocatori, la Serbia con 30, e poi la Turchia, la Russia, la Georgia. Gli antichi maestri si sono arresi all’idea che i confini del gioco si sono allargati, che il mondo è cresciuto, che se non portano la Nazionale migliore alle Olimpiadi, rischiano di non vincere. Agli ultimi Mondiali, gli Usa si sono presentati senza le super stelle. Sono arrivati settimi, il piazzamento peggiore di sempre.

È per questo che hanno subito messo un passaporto con le stelle e le strisce in tasca a Joel Embiid, sperando di averlo convinto a non accettare la stessa offerta arrivata dalla Francia. È per questo che stanno facendo pressioni su Paolo Banchero, al quale l’Italia vorrebbe dare la maglia della Nazionale del paese di papà. La presa di coscienza più evidente della metamorfosi è arrivata a marzo di due anni fa, quando gli Oklahoma Thunder hanno iniziato la loro partita contro i Dallas Mavericks con un quintetto senza americani. Mai successo, pure questo. Avevano in campo un canadese [Gilgeous-Alexander], un haitiano [Dort], un dominicano [Horford], un francese [Maledon] e un serbo [Pokusevski].

L’invasione è stata possibile quando sono cambiate le regole. Chi negli anni Ottanta voleva lasciare l’Europa per giocare tra i professionisti, doveva rinunciare alla Nazionale. Successe allo spagnolo Fernando Martín. Firmò per Portland, dovette lasciare Europei, Mondiali, Olimpiadi. Morì in un incidente d’auto e non fece in tempo veder firmato l’accordo [1989] tra basket americano e resto del mondo, una specie di green card, un permesso di residenza dei canestri. Votarono a favore 56 nazioni, si oppose l’Unione Sovietica per non lasciar strada al capitalismo, ma si opposero pure i dirigenti della federazione americana, per non cedere potere alla Nba, o forse perché lì dentro lavorava qualche profeta, qualche visionario che intuì come sarebbe andata a finire. 

Gli affari

La caduta dell’impero americano era stata anticipata dal tedesco Dirk Nowitzki e dallo spagnolo Pau Gasol, campioni con l’anello Nba a Dallas e a Los Angeles, ma adesso sta diventando un’esigenza commerciale. I giocatori stranieri che arrivano fanno aumentare la vendita di abbonamenti al servizio per la visione del campionato in streaming. Luka Dončić, campion d’Europa con la Slovenia, ha fatto segnare nel suo nome un +200% di spettatori. 

La Nba sa come vendere sé stessa meglio di molte altre leghe al mondo. Apertura, inclusione, equilibrio. Il principio base è la distribuzione della gioia. Nessuno si preoccupa se la città di New York non vince il campionato dal 1973 o se i Chicago Bulls non ci sono più riusciti dopo Michael Jordan. Anzi. Nessuno invoca la protezione e la tutela di brand privati, nel timore che si svaluti quello collettivo. Il commissioner che governa la lega agisce in senso opposto. Il brand è uno. Quelle tre lettere là. Denver-Miami, la finale in sette partite iniziata la notte scorsa, è la quinta diversa in cinque anni. Negli ultimi tre sono arrivate a giocarsi all’anello sei squadre differenti. Nessuno vende un film dove vincono sempre i soliti. Nemmeno più la Marvel. Anche la caduta dell’impero americano si vende bene. Il denaro va dove ci si diverte. non è stupido.

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