La Città dei ragazzi, un ponte per i minori stranieri: ricominciare vita è possibile

Il sole batte forte, e dalla finestra di un edificio si affacciano alcuni ragazzi. Sono uno accanto all’altro, cantano canzoni e sorridono. Non sono nel paese dove sono nati ma questo, per loro, è diventato casa. Siamo all’Opera Nazionale della Città dei Ragazzi, un luogo che si affaccia su un lungo viale alberato di via della Pisana, nel quadrante ovest di Roma. Una piccola città nella città che accoglie ogni anno circa 40 minori stranieri non accompagnati, provenienti da oltre venti paesi. Molti arrivano dal nord Africa, in particolare da Tunisia ed Egitto, ma anche da Mali, Sudan, Bangladesh, Pakistan. Uno di loro è Enamul. Oggi ha 29 anni e una figlia di due che vive in Bangladesh, il suo paese d’origine. Lavora a Roma, nel quartiere Prati, dove gestisce un’edicola vicino alla metro Ottaviano. Ma la sua storia comincia più di dieci anni fa. «Sono arrivato in Italia nel 2011. Avevo solo 16 anni», racconta. Lavoro, nei cantieri edili romani il 50 per cento degli operai è straniero. Firmato il nuovo contratto di settore La storia emblematica «Sono sbarcato da solo. Non ricordo bene le ragioni per cui sono partito, forse ero troppo giovane o forse non volevo pensarci. È stato un momento molto difficile. Sono stato fermato dalla polizia e portato in una comunità a Torre Spaccata; dopo sono stato trasferito alla Città dei Ragazzi». All’Opera inizia per Enamul una nuova fase. «Sono stato seguito da due educatrici, Angela e Lucia, che mi hanno aiutato soprattutto con la lingua. All’inizio non conoscevo una parola di italiano, ma andavo a scuola la mattina e la sera studiavo con Lucia. Partecipavo alle riunioni dell’assemblea, dove si prendevano le decisioni della comunità. Mi piaceva anche giocare a calcio e frequentare i laboratori di ceramica e informatica. Mi sentivo davvero accolto, avevo una vita complicata alle spalle ma in quella comunità mi hanno aiutato a ricostruire tutto». Una volta uscito dalla struttura, inizia a lavorare: prima come ambulante, poi come commesso. Infine, nel 2020, prende in affitto l’edicola. «Vendiamo un po’ di tutto, dai giornali ai souvenir. Mi piace questo lavoro, perché mi fa incontrare tante storie. Roma è speciale: ho viaggiato molto, anche al nord, ma un calore così non l’ho trovato altrove». Nel 2024 Enamul ottiene anche la cittadinanza italiana. «È stato un momento importante. Ho anche deciso di entrare a far parte dell’Associazione nazionale carabinieri. È un mondo che mi appassiona, anche se ormai ho superato l’età per entrare nell’Arma. Per me è importante rispettare le regole, in questi 14 anni non ho mai avuto denunce, e non è una cosa da poco». Il pensiero ritorna a quel luogo che lo ha cambiato: «La notte in cui sono uscito dalla struttura ho pianto molto. Mi dispiaceva lasciare quel posto che per me era casa. Era il mio cuore che non voleva andare via», dice, con un filo d’emozione. [Missing Caption][Missing Credit] La Città dei Ragazzi è un ente ecclesiastico di seconda accoglienza fondato nel 1953 da monsignor Patrick Carroll-Abbing e che basa il suo modello educativo sull’autogoverno, con l’obiettivo di favorire l’inserimento nella società e l’accesso al mondo del lavoro. Il percorso si snoda tra edifici bassi e spazi verdi. Ci sono quattro gruppi appartamento, una parrocchia, un teatro, dei campi sportivi, un’assemblea, una cucina, un orto e laboratori di falegnameria, ceramica, panificazione, pasticceria. I tagli ai fondi per l'accoglienza dei minori stranieri creano buchi nei bilanci dei comuni e scatenano una guerra tra ultimi Gli obiettivi «Uno dei nostri obiettivi è sviluppare percorsi che portino al lavoro. In particolare, stiamo rilanciando l’agricoltura sociale, abbiamo infatti 56 ettari di terreno», afferma Fabio Incastrini, presidente della Fondazione. Ma il percorso non è semplice. «La sfida più grande è riuscire a reperire i documenti dalle famiglie: di norma servono il certificato di nascita e i documenti dei genitori. Poi, ovviamente, ci sono anche i tempi della burocrazia, che rallentano tutto», spiega Michela, responsabile educativa. Lo sa bene Katiuska, 44 anni, educatrice colombiana arrivata in Italia da bambina con la sua famiglia migrante: «Il nostro compito è aiutare questi ragazzi a integrarsi nella società, a comprendere le regole. Noi siamo un ponte. Ma non basta occuparsi dei documenti. La vera quotidianità è fatta di gesti semplici: “Buongiorno, come stai? Hai dormito bene?” È da qui che un giovane capisce: qualcuno mi vede, qualcuno mi ascolta, qualcuno mi aspetta». Anche Lorenzo, educatore di quasi sessant’anni, conosce il significato della parola migrazione: «Ricordo bene i racconti dei miei. Alcuni ragazzi mi parlano delle loro vite nei villaggi, dei valori familiari. E io ci rivedo la mia infanzia: i nonni, la vita semplice. Con i ragazzi non esistono formule universali. Devi trovare la chiave giusta per ognuno, metterti in gioco come persona, non solo come ruolo. Solo così nasce una vera fiducia». Il sole è ancora alto, e da quella stessa finestra continuano ad affacciarsi volti nuovi. Alcuni restano pochi mesi, altri di più. Ma per tutti, anche solo per un frammento di tempo, la Città dei Ragazzi è una casa dove ricominciare.