Un altro rinvio, un altro candidato perso per strada. La Lega di Serie A, l’organismo che continua a gloriarsi d’essere la Confindustria del calcio italiano, va avanti senza un presidente verso il commissariamento. Nella giornata di ieri si è prodotto l’ennesimo rinvio, con impegno a rivedersi venerdì 11 marzo. Per eleggere il presidente una volta per tutte, o magari per litigare un altro po’.

Intanto dalla rosa dei nomi è stato sfilato quello di Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Banca centrale europea. Rimarrebbero in lizza (sempre che lo sappiano) l’ex direttore generale della Rai, Mauro Masi, e il capo di gabinetto del ministero della Cultura, Lorenzo Casini.

Per quest’ultimo sembra però vi siano dei problemi di incompatibilità, ma non è una novità. Ne sussistevano anche per Carlo Bonomi, il presidente della Confindustria vera che è stato candidato fino a due settimane addietro. Salvo ritirarsi dopo l’esplosione della guerra in Ucraina, giustificandosi con l’aumento delle responsabilità verso gli associati in una fase così grave, tale da non consentirgli impegni ad interim.

E col caso Bonomi si è toccato davvero l’apice dello psicodramma. Con tanto di pantomima, fatta delle 19 schede bianche su 20, mandata in onda martedì 15 febbraio. Sembrava una replica in versione grottesca della lunga settimana di voto per il Quirinale e invece era soltanto un escamotage per arrivare alla terza votazione, quella che abbassa il quorum alla maggioranza semplice.

Intorno al nome di Bonomi i presidenti dei club si erano divisi come ormai su tutto e per questo motivo i suoi sostenitori hanno preferito non bruciarlo alla prova del voto a maggioranza qualificata. E tutto ciò avveniva mentre il candidato presidente si godeva le vacanze alle Maldive.

Fra tante incertezze, c’è un solo dato sicuro: se entro il 24 marzo non arriva un presidente, toccherà al commissario con pieni poteri mandato dalla Figc. Che si affiancherebbe a un altro commissario federale già in carica, Gennaro Terracciano, nominato ad acta per la riscrittura dello statuto. Sarebbe il trionfo della de-resposanbilizzazione per la Lega professionistica più litigiosa al mondo.

Perdita di terreno

Era indispensabile partire dalla situazione di caos permanente in Lega Serie A per descrivere il momento infelice del calcio italiano.

L’estate dell’inatteso trionfo agli Europei sembra appartenere a un passato distante e i suoi effetti benefici sul movimento non si sono mai visti.

Si è invece materializzato il secondo playoff consecutivo per le qualificazioni mondiali, col rischio che sia premessa per la seconda assenza consecutiva dalle fasi finali. Ciò che decreterebbe il definitivo ridimensionamento del nostro calcio sul piano internazionale.

Ma non è soltanto una questione di risultati. Perché l’anomala estate del 2021 ha segnato un mutamento culturale nelle passioni sportive degli italiani e eroso parte del monopolio calcistico.

I trionfi olimpici di Tokyo hanno aperto una falla nella monocultura sportiva italica e fatto intravedere che un altro sport è possibile anche per un popolo impigrito da decenni di calciofilia priva di alternative.

È seguita sì una ripresa delle abitudini, ma compiuta senza perdere di vista le alternative. Alcuni, semplicemente, hanno scoperto di poter fare a meno. Se il calcio è stato per oltre un secolo un pezzo fondamentale dell’autobiografia della nazione, adesso scopre di doversi accomodare in posizioni un po’ più defilate.

Posati dalla politica

Un indice forte di tutto ciò? Il rapporto con la politica. Che in questi mesi si è eclissato. Veniamo da un tempo in cui gli Juventus Club Montecitorio, o Inter Club Montecitorio, o Milan Club Montecitorio e via andare, rappresentavano la forma ultima e più visibile di un rapporto di lobbying, figlio di una fase storica in cui tenersi buono il calcio era un imperativo categorico per la classe politica.

Adesso quel tempo pare dissolto. Né se ne percepisce la prospettiva di un ritorno. La tempesta pandemica ha cambiato troppe cose e inferto un forte scossone alla scala delle priorità. E in epoca di ricostruzione e Pnrr il consenso politico va ricercato in altre direzioni.

In questo senso le compagini ministeriali che si sono succedute nel periodo a cavallo dell’esplosione della pandemia hanno inviato un segnale forte, definitivo.

Il periodo della piena emergenza è stato caratterizzato dall’azione di un ministro dello sport, il pentastellato Vincenzo Spadafora, che col mondo del calcio si è scontrato fieramente, in modo anche duro. E la sua successora Valentina Vezzali, che ha assunto il ruolo di sottosegretario alla presidenza con delega allo sport, ha mostrato fin dall’inizio del mandato un atteggiamento per nulla condizionabile da potere e prepotenze del calcio.

Usando un linguaggio gergale si può dire che il calcio sia stato “posato” dalla politica. Messo da parte, non definitivamente escluso ma certo posto in diminuita considerazione.

Se era antica norma che fossero i politici a inseguire il mondo del calcio per ottenere consenso e supporto, adesso il pendolo oscilla in direzione opposta. È il calcio a cercare i politici e con atteggiamento di tendenziale subordinazione.

Lo si è visto nella lunga partita per l’elezione del presidente di Lega Serie A, quando sono circolati nomi di vecchi arnesi come Angelino Alfano, Walter Veltroni e Roberto Maroni.

E lo si legge anche dal tono meno arrogante con cui vengono chiesti aiuti di stato per attenuare gli effetti di una crisi economico-finanziaria che in realtà era drammatica già prima della pandemia.

Richieste che giungono in una fase che non registra segnali di austerità. La recente finestra di calciomercato invernale, come certificato dall’International Transfer Snapshot pubblicato dalla Fifa ai primi di febbraio, riferisce che l’Italia è seconda nella classifica dei paesi più spendaccioni, alle spalle della solita e irraggiungibile Inghilterra.  La cosa rende sfacciata la richiesta di ristori allo stato.

Il calcio italiano si esprime tramite lettere dai toni drammatici in modo caricaturale e senza comunicare una chiara idea di quali debbano essere le misure. E quanto al ricorso alla leva del prestito, lo strumento Sace messo a disposizione dei club è stato poco utilizzato. Vi hanno fatto ricorso soltanto le due genovesi e l’Udinese, mentre il Torino ha interrotto la procedura dopo ripensamento. Scoccia così tanto che non siano denari a fondo perduto?

Il capitalismo assente

Non soltanto la politica ha posato il calcio. Anche il mondo dell’economia e della finanza hanno fatto segnare una progressiva ritirata. Su questo fronte si mescolano ragioni storiche e motivi contingenti. Il calcio italiano del dopoguerra ha visto sviluppare il modello mecenatistico senza che venissero proposte alternative. E ciò avveniva mentre nel resto d’Europa il modello associativo con partecipazione dei tifosi e della comunità locale, in termini di controllo e gestione, si rafforzava.

E adesso che il modello mecenatistico è diventato improponibile non si è ancora riusciti a definire un modello alternativo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le proprietà straniere si moltiplicano e comprano pezzi di argenteria, anche di gran pregio. E tutto quanto avviene mentre le famiglie tradizionali del capitalismo calcistico si ritirano una dietro l’altra.

Rimane soltanto l’esperienza degli Agnelli-Elkann, ma a patto di continuare a considerarli una famiglia del capitalismo italiano. Sopravvivono soggetti fin qui incapaci di esprimere una chiara progettualità come Urbano Cairo al Torino, o imprenditori di diverse provenienze e fortune che hanno trovato nel calcio un approdo sicuro facendone un mestiere, come Aurelio De Laurentiis al Napoli e Claudio Lotito alla Lazio.

Fra l’altro, giusto questi ultimi due hanno proposto un modello multiproprietario che ha messo a nudo l’ennesima falla nei regolamenti calcistici nazionali. Il caso di Lotito (Lazio-Salernitana) è stato risolto con grande fatica e una tempistica inaccettabile. Quello di De Laurentiis (Napoli-Bari) è un’altra bomba a orologeria che non pare stia destando particolari preoccupazioni.

Come al solito, si penserà al problema quando il problema sarà tale. Né la questione della multiproprietà è percepita in misura più ampia, che vada oltre gli incombenti conflitti d’interesse derivati dal controllo di due club italiani. 

Il modello City Football Group messo in piedi dalla proprietà emiratina del Manchester City ha tracciato la strada e al suo cospetto la Fifa guidata da Gianni Infantino si è arresa senza nemmeno provarci. Ma ha avuto in Italia un precursore col modello Udinese.

L’illusione di realizzare un modello Wimbledon all’amatriciana sta portando a omettere la necessità di frenare le tentazioni multiproprietarie estere che stanno eleggendo il nostro calcio nazionale a approdo privilegiato, con tutti i rischi di economia parallela che ne derivano in termini di concorrenza e trasparenza.

Sarebbe utopia pensare che la federazione cominci a porre dei paletti più rigidi sulle proprietà straniere e sulle loro tendenze a costruire delle holding globali del pallone? Si tratterebbe di un segnale forte inviato al calcio internazionale. Restiamo in attesa.

Plusvalenze e Superlega

A proposito di segnali, la procura della Figc ha inviato il suo. Sono state chiuse le indagini sul plusvalenzificio e adesso si è in attesa dei deferimenti. Undici le società a rischio di dovere affrontare un processo sportivo. In ordine alfabetico: Empoli, Genoa, Juventus, Napoli, Parma, Pescara, Pisa, Pro Vercelli e Sampdoria, cui si aggiungono Chievo e Novara che sono club non più affiliati.

Proprio il Chievo è stato fin qui l’unico club a subire una sanzione sportiva (penalizzazione in classifica di 3 punti nel campionato 2018-19) per avere ecceduto in plusvalenze. Allora ci si augurò fosse l’inizio di una serie. Invece è rimasto un caso isolato. Con l’effetto che nel frattempo la malapianta del plusvalenzificio è arrivata a toccare (e in modo corposo) anche la società leader del nostro calcio, la Juventus. Ci sarà volontà di fare pulizia in modo serio?

Forse è questa l’ultima occasione offerta al calcio italiano per dare un segnale di intransigenza e riconquistare un pezzo di credibilità. Ma intanto che si attende di vedere come finirà, c’è chi continua a sognare la Superlega. La Juventus, per esempio.

O forse soltanto il suo presidente, Andrea Agnelli, che non contento della figuraccia rimediata quasi un anno fa cerca il bis e porta come ieri (l’occasione era un’iniziativa pubblica organizzata a Londra dal Financial Times) in giro per il mondo un progetto nato morto. Ma è proprio sicuro di non volersi candidare lui alla presidenza della Lega di A? Avrebbe il curriculum che serve.

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