La cucina è luogo di rifugio per la comunità trans

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina abitabile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. La dottoressa Yoga Nambiar è la prima donna transgender in India ad aver ottenuto un dottorato in salute mentale, e guida oggi la Lalitha Bhavan Community Kitchen. In un contesto sociale in cui oltre il 96 per cento delle persone trans nel paese è stato rifiutato nel mondo del lavoro, costretto a mestieri precari, pericolosi, ai limiti della legalità, l’iniziativa dell’attivista è davvero preziosa: la cucina comunitaria prepara 350 pasti al giorno e, con il centro Atma Saman, distribuisce non solo cibo ma formazione e autostima alle persone transgender. Nelle città indiane, i potluck (cene condivise dove ciascuno porta un piatto preparato in casa) stanno inoltre diventando spazi d’incontro e di accettazione per chi è spesso isolato, come molte persone della comunità trans. Per loro, questi momenti rappresentano la possibilità di sentirsi parte di qualcosa, sentirsi accettati, senza pregiudizi. Dietro molte di queste iniziative ci sono organizzazioni che forniscono sostegno economico e logistico, con l’obiettivo di combattere la povertà alimentare, ma anche di costruire percorsi di autonomia economica, offrendo supporto nella ricerca di un lavoro o nell’avviamento di microimprese. Corsi di cucina A Lahore, capitale culturale del Pakistan, esiste un corso di cucina gratuito e della durata di sei mesi interamente dedicato alla comunità trans, tenuto da inizio anno presso il Culinary & Hotel Institute of Pakistan. Ne ha parlato il quotidiano britannico The Independent, citando le parole della direttrice dell’istituto, Nadia Shehzad, secondo cui «il progetto vuole offrire alla comunità transgender, un settore rifiutato e ignorato della società, pari dignità e riconoscimento». La scuola sta cercando di ottenere il sostegno del governo per aiutare gli studenti a ottenere visti di lavoro all’estero e sta avviando contatti con alberghi e ristoranti locali per impiegarli dopo il diploma, con stipendi fino a 30.000 rupie (circa 90 euro). Al momento del corso, il sussidio mensile equivale solo a circa 24 euro, e per questo motivo abbandonare la danza, la mendicità o il sex work per una carriera culinaria non è facile, anche perché molti si chiedono se davvero la società li accetterà. Il clima, in realtà, sta cambiando: negli ultimi anni, alcune donne trans hanno assunto ruoli pubblici e mediatici, contribuendo a cambiare la narrazione su una comunità ancora fraintesa. Le iniziative in America Le iniziative che promuovono la cucina come spazio non solo gastronomico, ma anche sociale, luoghi dove le persone transgender possono ritrovare identità, lavoro, comunità, sono presenti anche in altre parti del mondo, a dimostrare l’utilità di progetti del genere. Negli Stati Uniti, collettivi come l’Angelito di New York organizzano cookout e cene comunitarie per donne trans nere, dove la cucina diventa cura collettiva e visibilità politica. In Canada, nazione notoriamente progressista in tema di diritti civili, esistono diversi banchi alimentari dedicati a persone queer, trans e Two-Spirit (individui appartenenti a culture indigene nordamericane che incarnano entrambi gli spiriti, maschile e femminile). In Città del Messico, megalopoli da 20 milioni di abitanti, esiste Casa Lleca, un rifugio per la comunità Lgbtq, dove da poco più di un anno è nata una cucina comunitaria con un doppio obiettivo: offrire lavoro alle donne transgender ospiti del centro e servire pasti caldi agli abitanti del quartiere. Le fondatrici hanno investito i propri risparmi per acquistare pentole, tavoli e sedie, creando un piccolo ristorante autentico e accogliente, permettendo a persone senza reddito e senza futuro di lavorare e riscattarsi. Il Messico rimane un paese molto rischioso dove vivere per una persona transgender — secondo un rapporto della Commissione Interamericana per i Diritti Umani, solo nel 2024 sono state uccise 36 persone transgender — ma realtà come Casa Lleca contribuiscono a cambiare il panorama sociale. La prima chef transgender in tv In Italia, secondo un’indagine Istat del 2023 condotta con l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, otto persone transgender su dieci hanno subito microaggressioni sul lavoro, e il 50 per cento ha sperimentato discriminazioni durante la ricerca di impiego per motivi legati all’identità di genere. «Durante il periodo Covid, quando feci il mio coming out come Chloé, improvvisamente tutti i contratti di lavoro che avevo in essere sono scomparsi, perché nessuna azienda si voleva più rappresentare da una persona all’epoca trans, perché pensavano che potesse avere delle ricadute negative sull’immagine dell’azienda stessa. Sono rimasta 13 mesi senza lavorare». A parlare è Chloé Facchini, volto televisivo del programma di Antonella Clerici su Rai Uno. Classe 1980, bolognese, è una chef di talento che si è formata in Romagna e in Francia, con varie esperienze tra cui quella al fianco dello chef Anthony Genovese al ristorante il Pagliaccio, a Roma. Chloé, donna con un passato di transizione, ha raccontato il suo coinvolgimento in un progetto di cucina sociale come quelli di cui si parla in questo articolo: dopo mesi senza lavoro, fu contattata da una cooperativa che organizzava corsi per conto della Regione Emilia-Romagna nei carceri di Modena, dove anni prima aveva già collaborato. In un primo momento esitò, temendo di rivelare la propria identità e perdere l’incarico, poi trovò il coraggio di accettare, spiegando di non riconoscersi più nel suo dead name. «Così ho iniziato a lavorare nel carcere di Castelfranco e nel carcere di Modena, e tenevo i corsi per la sezione maschile di questi due istituti penitenziari. Tutte le mattine andavo lì ed ero da sola a tenerli. Per me erano studenti, anzi facevo balotta con loro (in bolognese, “fare gruppo, divertendosi”, ndr), e in cambio mi hanno insegnato anche una marea di cose. Erano molto ingegnosi, e tante persone attraverso la cucina hanno potuto poi lavorare all’interno dell’istituto penitenziario stesso. Quindi, attraverso questo lavoro in cucina, per loro è stato anche un modo di riscattarsi; con la speranza che, una volta fuori, avrebbero avuto anche la possibilità di trovare lavoro». Facchini si considera fortunata: arrivava da una famiglia complicata, ma prima della transizione si era già fatta un nome come chef, e la televisione le aveva offerto quella credibilità che a molte persone trans viene ancora negata. «Perché vengono giudicate sulla base degli stereotipi: quando tu vedi una donna trans per strada, immagini subito che per vivere faccia la prostituta, cosa che invece non è. E quindi, quando mi sono affermata come Chloé, ho certamente avuto anche io qualche difficoltà, non lo nego. Però il fatto che comunque fossi ritornata a lavorare in televisione mi ha aiutata molto. I telespettatori da casa non avevano mai visto una chef trans su Rai 1 a mezzogiorno, in una fascia oraria che di solito non ci ospita mai. È stata una bella rivoluzione. Ho avuto delle persone che mi hanno ringraziata perché non conoscevano questo mondo e non si sapevano nemmeno approcciare, magari, al nipote che era gay o al figlio. Hanno capito che effettivamente siamo delle persone normalissime, come tutte le altre: che vivono una vita assolutamente normale, che lavorano, che studiano e che si affermano.» E chiude con un memento: «Ricordati sempre che le battaglie le hanno sempre iniziate le persone trans, perché sono quelle che non si possono nascondere, perché ce l’hanno scritto sulla faccia. Perché se tu guardi anche i moti di Stonewall, le persone omosessuali dell’epoca si nascondevano, si ghettizzavano, cercavano di confondersi fra la folla perché avevano timore, avevano paura. Alla fine, quando la cosa è andata troppo oltre, le prime che hanno smantellato questo sistema erano proprio delle donne trans. Siamo delle combattenti». [Missing Caption][Missing Credit]