A Taranto non c’è solo il disastro ambientale causato dall’Ilva. Entrerà nel vivo, infatti, il 23 febbraio, presso il tribunale della città ionica, il processo che vede imputati Paolo Ciervo, Pasquale Moretti e Mario Petrelli, accusati dalla procura di aver provocato «un disastro ambientale attraverso l’alterazione di un ecosistema, per effetto della contaminazione delle acque sotterranee determinata dal percolato della discarica». Un processo che dovrà fare luce sulle responsabilità penali, ma che riapre la storia di una discarica, chiamata Vergine, che si è trasformata da invaso di raccolta del pattume in una bomba ambientale. Le amministrazioni e i cittadini temono che il sito, oggetto di messa in sicurezza e bonifica, possa riaprire. Dopo l’Ilva, la discarica rappresenta un disastro per il territorio di Taranto. Il sito si trova nel comune di Lizzano, ma ricade nella cosiddetta isola amministrativa della città pugliese. Ciervo era il legale rappresentante della Vergine Spa, gestore dell’impianto di discarica fino al 13 dicembre del 2013; Moretti era il responsabile tecnico degli impianti dal 2008 fino al sequestro della discarica ad opera dei carabinieri del Noe, avvenuto il 10 febbraio del 2014; infine, Petrelli era il legale rappresentante della Vergine Srl, società che era subentrata nella gestione degli impianti due mesi prima che venissero sequestrati. 

I guai per i gestori iniziano nel 2014, quando la discarica Vergine è stata sequestrata per la prima volta dai carabinieri del nucleo ecologico, dalle cui indagini, poi, si è originato un primo processo. «Gli impianti provocavano l’emissione di sostanze odorigene quali solfuro di idrogeno e biogas in genere derivanti dai processi di raccolta e post-gestione delle vasche di raccolta e di trattamento dei rifiuti, atte a cagionare molestia olfattiva e disturbi di vario genere, nausea, vomito, problemi respiratori, alle persone e segnatamente alla popolazione residente nel centro abitato del comune di Lizzano, distante 3.5 km dagli impianti», si leggeva, allora, in quel provvedimento di sequestro da cui scaturisce un primo processo.

Perché il fatto non sussiste

Il processo, però, che si chiude in corte d’Appello con l’assoluzione degli imputati perché «il fatto non sussiste». «Le argomentazioni appaiono francamente fragili, sconfinando in alcuni casi in meri artifici lessicali, quale l’utilizzo degli esposti presentati dai cittadini di Lizzano, da cui, per stessa ammissione del Tribunale, aveva preso le mosse il procedimento penale», scrivono i giudici di secondo grado. «Documenti in sé, privi di valore giuridico», definisce gli esposti presentati dai cittadini di Lizzano il presidente della Corte d’Appello di Taranto. Ipotizzando che i miasmi lamentati dalla popolazione possano derivare dal vicino depuratore oppure dal fatto che «le campagne nelle immediate vicinanze del centro abitato fossero oggetto di spandimento di acque di vegetazione derivanti dalla molitura delle olive provenienti da impianti per la lavorazione di prodotti agricoli, e, conseguentemente, derivanti da fonti alternative». Le stesse dichiarazioni delle parti civili in aula, secondo il giudice Antonio Del Coco: «appaiono fondate su percezioni soggettive, che possono essere state ingigantite da psicosi più o meno collettive». È anche per questo, dunque, che per i giudici di secondo grado «il fatto non sussiste».  Tra qualche giorno la partita giudiziaria si riapre e con accuse ben più gravi nei confronti degli stessi imputati: disastro ambientale. Come si legge nella relazione di consulenza tecnica chiesta dal pubblico ministero della procura di Taranto, Lanfranco Marazia, nella perizia redatta dagli esperti Bruno Greco e Mauro Sanna, che ora è agli atti del processo che entrerà nel vivo il prossimo 23 febbraio, infatti, «le analisi presenti in atti, effettuate da agenzia regionale della Protezione ambiente negli anni, rivelano un significativo incremento di nitrati nei pozzi direttamente influenzabili dalla discarica, come anche presenza di boro e di altri inquinanti, quali diossine e PCB (policlorobifenili)

, che non hanno alcuna causa naturale per essere presenti nelle acque sotterranee». Non solo. Secondo i consulenti della procura ionica: «la presenza diffusa dei nitrati nelle acque sotterranee, risultando in concentrazione superiore al limite considerate ammissibile per le acque destinate al consumo umano, evidenzia la compromissione dell'uso a cui le stesse siano o potrebbero essere destinate». A fronte di ciò, hanno concluso gli esperti: «a seguito della conoscenza della contaminazione nelle acque sotterranee non risulta che sia stato attivato alcun monitoraggio dell'area e delle falde per la bonifica (e/o messa in sicurezza permanente e/o operativa) del sito in oggetto». La relazione tecnica chiesta dalla procura di Taranto è risalente a tre anni fa, ed è la prova regina nel processo a carico dei vecchi proprietari che si dichiarano estranei alle accuse e pronti a far valere le loro ragioni dopo l’assoluzione ottenuta nell'altro processo.

L’affare da riaprire

Nel frattempo, però, la battaglia ambientale condotta dalla popolazione di Lizzano e dagli abitanti dei comuni limitrofi sulla discarica Vergine non si è mai fermata. Così come quella partita che è politica ed economica insieme, sulla questione, non si è mai chiusa. Per capirlo bisogna fare un passo indietro. È il 17 dicembre del 2015 quando nella sede della provincia di Taranto l’allora presidente Martino Tamburrano proponendo una deliberazione, poi ritirata per le proteste dei comitati, svela l’assenza di copertura finanziaria per la messa in sicurezza, la volontà di riaprirla, ma anche il possibile ingresso di un gigante del settore: Antonio Albanese. E, infatti, Albanese, con la sua lutum srl, tre anni dopo, subentra nella proprietà del sito. Già vice presidente di Confindustria Taranto, Albanese è proprietario della discarica di Massafra, in provincia di Taranto, in cui attualmente smaltiscono i loro rifiuti solidi urbani la maggior parte dei comuni pugliesi. E da quell’antefatto comincia una nuova storia che arriva fino agli ultimi giorni. Nel 2015 l’imprenditore scriveva alla provincia rivelando l’acquisto dei terreni della “Vergine” e chiarendo di possedere le «garanzie finanziarie per la prosecuzione dell’attività di discarica». Da allora la popolazione vive un incubo: la possibile riapertura del sito, ipotesi che agita le notti insonni delle popolazioni locali. Dal luglio del 2019, i giudici hanno riaperto i cancelli degli impianti perché l’azienda è stata «autorizzata ad espletare gli interventi di messa in sicurezza e di salvaguardia dell'ambiente per la discarica (Vergine), in costanza di sequestro». È ritornato incessante il via vai di autoarticolati in contrada Palombara. Stavolta, però, non per scaricare scarti dell’industria italiana, farmaceutica, petrolifera, siderurgica, tessile, come è avvenuto tra il 2008 e il 2014 per centinaia di migliaia di tonnellate. Ora, in queste campagne ancora fertili che si trovano al confine tra i centri abitati di Lizzano, Faggiano, Monteparano e Roccaforzata (isola amministrativa di Taranto, il capoluogo) i camion sono ritornati, autorizzati dai giudici, per portare via il percolato che fuoriesce dalle vasche per destinarlo ad altri impianti italiani. Il percolato viaggia verso Nord, nelle discariche del Veneto, e verso Sud, a Lamezia Terme. L’imprenditore Albanese ha acquistato quei terreni per una cifra vicina agli otto milioni di euro, per rimetterli in sicurezza e bonificarli e per riaprire quel sito. La stessa Lutum aveva chiesto, attraverso una istanza, lo «spostamento del corpo dei rifiuti presenti nella vasca B al fine della posa in opera di un’adeguata copertura». Una richiesta a cui l’agenzia regionale per la Protezione ambientale si è opposta, rifiutando di rilasciare un parere. «L’agenzia regionale ha solo condizionato il parere alla trivellazione di due pozzi, comunque noi abbiamo eseguito il 90 per cento di tutte le attività di messa in sicurezza e bonifica, le amministrazioni locali devono stare tranquille perché stiamo procedendo speditamente con il ripristino ambientale». Le amministrazioni locali, infatti, sono contrarie alla riapertura del sito che passa per il rilascio da parte della regione di una nuova autorizzazione integrata ambientale. 

La comunità che resiste 

«Questo compendio di rifiuti è una bomba ecologica. Tutto quello che è stato scaricato negli anni nel terreno ora si trova nel sottosuolo. Già nel 2017 l’analisi dei pozzi spia rivelò la presenza delle diossine», racconta a Domani la sindaca del comune di Lizzano, Antonietta D’Oria: «adesso che le membrane si sono sciolte è una bomba ecologica. L’azienda vuole verificare se gli esami fatti sono veritieri oppure no spostando i rifiuti. E per essere autorizzati a farlo, dovranno richiedere l’Aia, l’autorizzazione a riaprire gli impianti», rileva D’Oria, che è anche la pediatra del comune di Lizzano e da circa un decennio si batte contro gli inquinatori. Così raccontava il 15 settembre del 2010 ai parlamentari della Commissione parlamentare di inchiesta sul traffico dei rifiuti che erano in missione a Taranto: «Da venti anni lavoro come pediatra presso il Comune di Lizzano e negli ultimi anni ho portato in giro per l’Italia casi particolari di malattie rare, casi esemplari di patologie di cui tutti i colleghi si meravigliavano. E ancora: «posso riferirvi quanto ho rilevato in uno studio dell’istituto Mario Negri a cui ho partecipato, cioè che il fenomeno del “wheezing”, l’asma del bambino, a Lizzano è presente nelle stesse percentuali con cui è presente tra i bambini di Taranto che vivono sotto le ciminiere dell’Ilva».

«Abbiamo chiesto qualche giorno fa a tutti i sindaci della provincia di Taranto di adottare una nostra proposta di deliberazione con la quale si impegna l’organo di governo provinciale ad assumere sui tavoli tecnici di competenza posizioni che vanno esclusivamente nella salvaguardia e tutela dei nostri territori e della salute dei nostri concittadini», dice a Domani Valerio Morelli, vice-sindaco e assessore all’ambiente del comune di Lizzano. Entrambi sono attivisti dell’associazione Attiva Lizzano che è parte civile nel processo per disastro ambientale che entrerà nel vivo il prossimo 23 febbraio al tribunale di Taranto. Morelli, quando era consigliere comunale all’opposizione della giunta di centrodestra, qualche anno fa, pagò con un pesante avvertimento le sue denunce, venti colpi di kalashnikov che furono esplosi davanti alla porta della sua abitazione fortunatamente senza conseguenze. Albanese che con la storia pregressa della discarica non c’entra nulla, chiarisce la sua posizione. «Stiamo mettendo in sicurezza tutto, abbiamo fatto un investimento per l’acquisto, un altro per mettere in sicurezza e bonificare il sito, chiaramente vogliamo chiedere, in accordo con tutti gli enti, la riapertura del sito. Ci porteremo i rifiuti speciali non pericolosi». Vergine, insomma, è pronta a riaprire. 

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