Il ragazzo è a terra, in mezzo al suo sangue. Fa caldo, le mosche ronzano intorno al cadavere, impaziente il becchino sbuffa in faccia al medico legale che è ancora lì a rovistare sui resti umani. Si fa largo fra la folla un uomo che tiene per mano i suoi due figli, uno avrà sei anni e l'altro nove. Afferra il primo e se lo carica sulle spalle, si sporge in avanti sollevandosi sulla punta dei piedi perché il bambino possa vedere meglio. «Talìa, talìa», guarda, guarda. Poi scaraventa giù il primo figlio, agguanta il secondo che impaurito comincia a piangere. Il padre gli gira la testa con forza e pure a lui dice: «Talìa, talìa», guarda, guarda.

Devono vedere, devono vedere anche loro la morte di Palermo. Sono alla Bandita, borgata su un mare che è fangoso, scheletri di cemento, montagne di rifiuti, fosse, frigoriferi abbandonati, cani spelacchiati che s’inseguono, l’insegna arrugginita del vecchio ristorante “Spanò” e quel ragazzo a terra. Non l’hanno ancora identificato, è il mio giorno fortunato.

Oggi tocca a me la cronaca, Robertino Leone dovrà andare a casa del ragazzo, parlare con i familiari, farsi dare (o rubare) la foto di lui da vivo perché non si può tornare in redazione senza la foto. Non so chi aspetta già alla squadra mobile o alla caserma dei carabinieri, forse Lombardozzi o forse Costa, per avere una scheda e scrivere poi quaranta righe sotto la testatina “chi era”. La griglia della pagina, il menabò, è sempre la stessa: il fatto, la famiglia, “chi era”. Non c’è tempo di approfondire per un quotidiano del pomeriggio che chiude in tipografia a mezzogiorno come L’Ora, voce dell’altra Palermo che a Palermo però nessuno chiama L’Ora ma “il L’Ora” o “L’Ora morti e feriti” per le grida degli strilloni che agli angoli delle strade annunciano l'ultima sparatina.

Cronaca di una guerra di mafia

Faccio il cronista da due anni e comincio a pensare di non essere adeguato per questo mestiere, non avevo mai visto un morto e da quando Palermo è diventata una tonnara ne ho visti più di cinquanta, ma non è quello che mi spaventa: mi dà i brividi bussare alla porta di casa dei parenti che ancora non sanno di un figlio o di un padre che non ci sono più, oggi ci va Robertino ma domani sarà il mio turno. Perché, domani, di sicuro ci sarà un altro morto.

Sono le dieci del mattino e cerco una cabina telefonica per “dettare” il pezzo agli stenografi, mentre infilo il gettone il fotografo Michele Naccari mi tira per la giacca: «Ce ne fu uno anche a Maredolce..». Maredolce, un lago sotterraneo, una chiesa sconsacrata e l'impianto di calcestruzzi dei Mafara, trafficanti di stupefacenti. Ma non è uno di loro, è un altro ragazzo quello steso in un giardino di aranci. Loro, Giovanni e Francesco Mafara, li faranno fuori in autunno, ad ottobre. La nuova scena è sempre uguale alla vecchia. I poliziotti che cercano tracce che non trovano mai, i testimoni che non hanno visto niente, il medico legale che azzarda il calibro dell'arma.

È il 1981 e sono trascinato in un incubo. Tutto comincia l’11 marzo, la data d'inizio di quella che passerà alla storia come la grande guerra di mafia di Palermo. In realtà non è stata una guerra, ma uno sterminio dove i Corleonesi hanno cancellato dalla faccia della terra tutti i rappresentanti dell'aristocrazia criminale siciliana. Alla periferia dell’impero, in provincia di Caltanissetta e a Catania, hanno già ucciso Giuseppe Di Cristina, Francesco Madonia e Pippo Calderone, boss che contano in Cosa Nostra. Ma chi s’intende di cose di mafia parla di equilibri instabili, rappresaglie fra di loro. L’11 marzo si comincia a capire che non è proprio così.

«Devi andare alla Milicia», mi dicono al giornale. La Milicia, una campagna rigogliosa e profumata fra i paesi di Casteldaccia e Altavilla, è una terrazza sul Mar Tirreno. Ci vado, mi arrampico sulla collina, finisco fra i limoni, vedo una “Lapa”, una moto Ape messa di traverso in un sentiero. I carabinieri si aggirano fra campi e casolari. Non c’è cadavere, non c’è sangue, non c’è nulla. È una lupara bianca, il sequestro senza ritorno. La lupara bianca è l’omicidio perfetto, il più pulito. Non c’è corpo del reato, non c’è reato. Chissà di chi si è fidato Giuseppe “Piddu” Panno, il proprietario della “Lapa”, anziano patriarca che ha fatto parte anche della Cupola?

Nella lupara bianca c’è sempre qualche amico che attira nella trappola, a volte è persino un fratello, qualcuno di cui ci si fida ciecamente e che ti accompagna con il sorriso fino agli assassini. Poi nessuno ti ritrova più. Senza rumore, senza un un solo colpo di pistola Palermo quell'11 marzo è inghiottita nella paranoia mafiosa che cambierà per sempre l'ordinamento politico-criminale della Sicilia.

Il Principe ammazzato

Giuseppe Panno era molto legato a Stefano Bontate, il capo dei capi dei mafiosi di città, quello che conoscono come “il Principe di Villagrazia”, la borgata dove cresce e dove suo padre Paolino si conquista il soprannome del “boss che schiaffeggia gli onorevoli” per avere preso a ceffoni un deputato regionale proprio davanti al maestoso Palazzo dei Normanni, il parlamento siciliano. Il figlio Stefano veste con eleganza, prende lezioni d'inglese, è l’invitato d'onore nei salotti della borghesia palermitana. L’ho incrociato una mattina sotto i portici di piazzale Ungheria dove c’è il quartiere generale del Banco di Sicilia, l’ho visto mentre chiacchierava con un paio di pezzi grossi, direttori generali. Una sera l'ho incontrato al “bar del viale”, un'altra sera sono andato a trovare un collega al “Diario”, io entravo e lui usciva. Nel giorno del suo quarantaduesimo compleanno, Stefano Bontate è nel baglio di via Aloi. Dopo la torta con la moglie si vuole concedere un festeggiamento più intimo, due dei suoi l’hanno già tradito.

Il capomafia sale in auto e dal labirinto delle viuzze di Villagrazia va verso la circonvallazione, una moto Honda lo aspetta al varco. Sopra ci sono Pino Greco e Giuseppe Lucchese, i due sicari più “valorosi” di Palermo. Dietro a loro un corteo di macchine, una Fiat 131, una Fiat 128, un'A112, tutte cariche dei macellai di Totò Riina. Bloccano l'auto di Bontate e gli sparano tre fucilate in faccia. Non è una lupara, è un Kalashinokov AK 47, lo stesso che un anno mezzo dopo ucciderà il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. È la prima volta che usano quell'arma in Sicilia. La mafia di Palermo trema perché “il Principe” non c'è più.

Che sta accadendo? Chi sarà il prossimo morto dopo Stefano Bontate? Passano alcuni giorni e la lupara bianca colpisce ancora. Spariscono altri tre uomini di Villagrazia. Anche loro vengono traditi in famiglia. Gli investigatori ci capiscono molto poco e noi giornalisti ancora meno, ma per noi è più semplice trovare una logica nei primi giorni di guerra.

I morti li chiamiamo “perdenti”, quelli che sparano “vincenti”. Facile. Almeno nei titoli. Passano due settimane e, la notte del 10 maggio, sventagliate di Kalashnikov scheggiano le vetrine blindate della gioielleria Contino di via Libertà.

Stanno provando il fucile perché Salvatore Inzerillo, il migliore amico di Stefano Bontate e rampollo di una famiglia che comanda anche a New York, viaggia su un'Alfetta corazzata. I giuda infilati anche dentro la mafia più influente del mondo fanno quello che devono fare: avvertono i sicari. «..Domani Inzerillo va trovare la sua femmina in via Brunelleschi..». L'indomani, la mattina dell'11 maggio, fanno fuori anche Salvatore “Totuccio” Inzerillo. Sono gli stessi killer del “Principe”. Uno di loro, Nino Madonia, subito dopo il delitto dirà agli altri: «Il pocket coffee funziona, minchia se funziona...». Il pocket coffee è il Kalashnikov.

Io, Letizia e il funerale del boss

A mezzogiorno dell'11 maggio sono anch'io in via Brunelleschi. Il capitano del nucleo operativo Titobaldo Honorati è nervoso, urla ordini ai suoi carabinieri, il medico legale ha il suo bel da fare, gira e rigira il cadavere, il volto è spappolato, sulla sua Alfetta blindata non ci sono documenti. Chi è la vittima? Cronista alle prime armi non sono certo un esperto della materia, ma qualcosa sulla mafia l'ho intuita: che è una scienza esatta, non c'è mai nulla di casuale, non è soggetta alle imprevedibilità del terrorismo, è come la matematica: uno più uno fa sempre due. Mi avvicino al capitano e timidamente mi sbilancio: «Tito, guarda che questo è Totuccio Inzerillo..». Mi risponde infastidito: «E che ne sai tu?». Alle cinque del pomeriggio il cadavere viene identificato, il capitano Honorati mi telefona in redazione: «Bolzò, è Totuccio».

Due giorni dopo sono in via Castellana, una strada lunga stretta che parte da una piccola piazza e arriva fino alle colline di Bellolampo, dove c’è la grande discarica di Palermo sopra la quale pascolano le vacche di Saro Di Maggio, lo zio di Totuccio Inzerillo. Nella borgata di Passo di Rigano mi sento dentro un film. La pareti della parrocchia di San Giuseppe sono ricoperte dalle corone di fiori, un migliaio di uomini e di donne sono lì per l’ultimo saluto al boss, fra la folla centinaia di picciotti armati. È una giornata di sole, sotto le camicie s’intravedono i revolver. A Passo di Rigano ci arrivo con Letizia Battaglia, che è già una fotografa famosa.

I picciotti si rivolgono a Letizia: «Tu non puoi fare niente». E poi si avvicinano a me: «Tu puoi rimanere, ma stai fermo qui». Letizia, comunque, riuscirà a fare un paio di scatti del più grande funerale di mafia mai visto a Palermo. Mancano pochi minuti all'inizio della cerimonia funebre, sulla strada stretta e lunga si ferma una limousine bianca. Scendono i parenti “americani” di Totuccio, uno di loro apre la portiera e appare una donna minuscola. Gonna nera, maglia nera, velo nero. È Filippa Spatola, la vedova. La circondano tutti i picciotti di Passo di Rigano. Sono venuti armati al funerale perché ormai - e se lo sussurrano fra loro - sono “ai materassi”. Sono in guerra.

«I materassi»

Da qualche giorno i picciotti non abitano più nelle loro case ma in appartamenti sicuri dove dormono sui materassi (da qui il detto) gettati a terra, si cucinano, preparano agguati, giocano a carte, lubrificano armi. Non credo che qualcuno riuscirà mai a scoprire se quell'espressione, “andare ai materassi”, l'abbiano coniata i mafiosi di Palermo o Francis Ford Coppola nel suo Padrino del 1972, ma poco importa perché realtà e fiction in quel 1981 siciliano si confondono.

Con il cinema che ispira la mafia o con la mafia che si ispira il cinema. Non avranno buona sorte i picciotti di Passo di Rigano. Di Inzerillo, fra la primavera del 1981 e l’autunno del 1983, ne uccidono ventuno. Uccidono anche Giuseppe, il figlio più grande di Totuccio. Ha sedici anni e va dicendo in giro che vendicherà suo padre. Pino Greco prima gli taglia il braccio destro con un coltellaccio, poi gli spara. Racconta agli amici: «Degli Inzerillo non deve rimanere neanche il seme». Ogni giorno c’è un omicidio, a volte due e a volte tre. In un quadernetto segno nome e cognome delle vittime, data di nascita e di morte, famiglia di appartenenza, collegamenti con l’America, tutto ciò che mi può essere utile per il prossimo articolo. Il 26 maggio, poche ore dopo i funerali di Totuccio, ne spariscono altri quattro. Giuseppe Di Franco, Angelo e Salvatore Federico. E Girolamo Teresi, cognato di Bontate.

La squadra mobile di Palermo è in un antico convento, nell'angolo di una piazza dove svettano centinaia di palme. Ogni mattina sono là. Salgo le rampe di scale che portano al primo piano sperando sempre di non incrociare il nuovo capo, il dottore Giuseppe Impallomeni. È il funzionario che ha preso il posto di Boris Giuliano, il “poliziotto buono” che Leoluca Bagarella ha spento nel luglio del 1979. Non conosco bene Impallomeni, ma non mi è piaciuto da quando è arrivato. Adesso so anche perché. Proprio in quel marzo dell'81, i giudici milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone scoprono sulle colline di Arezzo gli elenchi della P2: Impallomeni è uno della loggia di Gelli.

Il questore di Palermo si chiama Giuseppe Nicolicchia e non è della P2 ma dell’Ompam, un'altra loggia fondata da Gelli in Sudamerica. Alla “mobile” ci vado per incontrare Francesco Accordino, Ciccio, il capo della sezione “Omicidi”. La sua stanza è accanto a quella di Impallomeni, quando arrivo al primo piano sogno sempre di essere trasparente.

Ciccio Accordino lo vedo e non lo vedo perché sento solo la sua voce, al di là di una catasta di fascicoli sulla sua scrivania. È nascosto là dietro. Sono carpette di colore verde chiaro o grigio, ogni carpetta ha un nome, sotto il nome c’è stampigliata una grande “M” (mafioso) e sotto la “M” una croce: mafioso morto. Mese dopo mese il muro dei fascicoli diventa una montagna e Accordino è sempre più invisibile. Il capo dell’Omicidi è figlio d'arte, suo padre Tindaro è un vecchio maresciallo in pensione, quello che ha arrestato per la prima volta - il 15 dicembre del 1963 - Totò Riina sopra la galleria Aldisio di Corleone.

Ciccio è simpatico, per me molto rassicurante, anche se non sa bene ancora quale bomba ha fatto esplodere Cosa Nostra. I fascicoli degli omicidi che ha sulla scrivania sono al momento tutti “a carico di ignoti”. Dopo la stanza di Accordino c’è la stanza di Ninni Cassarà, il capo dell’Investigativa. Ninni è distinto, colto, garbato. L'unica volta che è un po’ invadente con me (e mi fa felice) è quando una sera mi dice: «Lo chiedo solo agli amici, dammi 100 mila lire e firma». Firmo senza leggere. Cassarà presenta nuovi soci a una nota compagnia di carte di credito per raccogliere i punti che gli permettono di avere, “in premio”, un computer. Ho conservato quella targhetta per un paio di decenni nel mio portafogli, senza usarla mai, come una reliquia. Il computer che non gli ha mai dato il ministero dell’Interno gliel'ha dato la Diners. Nell'agosto del 1985 i killer uccidono Ninni. Dopo un anno, il Viminale trasferisce Accordino nel posto di polizia più lontano da Palermo: al commissariato di Bressanone, mezz'ora di treno da Innsbruck.

La morte ha fatto 100

«Volante Brancaccio, volante Brancaccio..». La voce stridula proveniente dalla radio della polizia me la ricordo ancora dopo quarant’anni. Ogni mattina segnala un omicidio nel quartiere tagliato in due dalla ferrovia e dalla mafia, da una parte i perdenti e dall’altra i vincenti, i morti e i vivi.

Brancaccio è uno degli scenari di guerra. L’altro è sotto Monte Grifone, fra la via Oreto e la Guadagna. Un terzo fra Bagheria e Villabate e Casteldaccia, il “triangolo della morte”. Un quarto scenario è il paese di Cinisi, quello di Tano Badalamenti e dei “cento passi” di Peppino Impastato.

Di Badalmenti ne uccidono undici. Anche di Buscetta ne uccidono undici. Ci sono giornate lunghissime dove sono costretto a spostarmi da una parte all’altra della provincia, nel traffico, sempre con l’angoscia della “chiusura” del giornale. All'inizio della guerra di mafia mi compro una moto, un Enduro, che rivenderò a fine guerra nel novembre 1983. In mezzo c’è l'estate del 1982 e le prime pagine dell’Ora che non hanno più titoli ma numeri: “Siamo a 70”, “E 86!”, “90 e 91“.

Il 26 agosto è inchiostro rosso a sei colonne: “La morte ha fatto 100”. Vado in giro per la città guardando ossessivamente la parte posteriore delle auto posteggiate sui marciapiedi. Se sono troppo basse, troppo vicine all'asfalto, significa che nel portabagagli c'è un carico pesante. Sono gli “incaprettati”, uomini legati con una corda che passa fra gambe e braccia e poi intorno al collo. Quando i muscoli cedono, la vittima si strangola da sola. Nel turbine della guerra qualche mafioso regola anche conti personali.

Un pomeriggio arriva una telefonata in redazione: «C'è un cantante in una macchina a piazza Indipendenza». Pensiamo che “cantante” voglia dire spione, uno che ha cantato con gli sbirri. Quando siamo nella piazza, scopriamo che nel portabagagli c'è un uomo con i genitali in bocca. E' un cantante vero, canzoni napoletane, molto popolare nelle borgate. È Pino Marchese, l'amante della figlia di un boss che è sposata. Punito. Un altro pomeriggio la radio della polizia mi porta davanti alla stazione centrale.

C’è un’utilitaria grigia in doppia fila, sul parabrezza una contravvenzione per divieto di sosta, nel portabagagli il corpo mentre la testa dell'uomo è sul sedile anteriore. Sembra fatta di cera. È un “sigarettaio” che ha fatto qualche sgarro.

L'antica mafia di Palermo non esiste più. Una di quelle mattine che passo dalla “mobile”, m’infilo come sempre nella stanza di Ciccio Accordino e trovo la sua scrivania sgombra. Neanche un fascicolo. Allargo le braccia per dire: ma dove sono? Non risponde.

Andiamo a bere un caffè al bar Marocco davanti alla cattedrale normanna e riprovo a chiedere. Niente. Ciccio è meno loquace del solito. Scoprirò, ma soltanto qualche mese dopo, che i poliziotti ormai hanno capito quasi tutto di cosa è avvenuto dentro la mafia. Il capo dell’Investigativa Ninni Cassarà ha una fonte che gli sta svelando ogni mistero, uno che poi diventerà insieme a Tommaso Buscetta uno dei due grandi pentiti del maxi processo del giudice Falcone. La fonte di Cassarà è Salvatore Contorno, forse l’amico più fedele di Bontate. Ma è ancora un segreto. Cassarà gli dà un nome in codice: “Prima Luce”.

guerra di mafia mi compro una moto, un Enduro, che rivenderò a fine guerra nel novembre 1983. In mezzo c’è l'estate del 1982 e le prime pagine dell’Ora che non hanno più titoli ma numeri: “Siamo a 70”, “E 86!”, “90 e 91“.

Il 26 agosto è inchiostro rosso a sei colonne: “La morte ha fatto 100”. Vado in giro per la città guardando ossessivamente la parte posteriore delle auto posteggiate sui marciapiedi. Se sono troppo basse, troppo vicine all'asfalto, significa che nel portabagagli c'è un carico pesante.

Sono gli “incaprettati”, uomini legati con una corda che passa fra gambe e braccia e poi intorno al collo. Quando i muscoli cedono, la vittima si strangola da sola. Nel turbine della guerra qualche mafioso regola anche conti personali. Un pomeriggio arriva una telefonata in redazione: «C'è un cantante in una macchina a piazza Indipendenza». Pensiamo che “cantante” voglia dire spione, uno che ha cantato con gli sbirri. Quando siamo nella piazza, scopriamo che nel portabagagli c'è un uomo con i genitali in bocca. È un cantante vero, canzoni napoletane, molto popolare nelle borgate. È Pino Marchese, l'amante della figlia di un boss che è sposata. Punito.

Un altro pomeriggio la radio della polizia mi porta davanti alla stazione centrale. C’è un’utilitaria grigia in doppia fila, sul parabrezza una contravvenzione per divieto di sosta, nel portabagagli il corpo mentre la testa dell'uomo è sul sedile anteriore. Sembra fatta di cera. È un “sigarettaio” che ha fatto qualche sgarro.

L'antica mafia di Palermo non esiste più. Una di quelle mattine che passo dalla “mobile”, m’infilo come sempre nella stanza di Ciccio Accordino e trovo la sua scrivania sgombra. Neanche un fascicolo. Allargo le braccia per dire: ma dove sono? Non risponde. Andiamo a bere un caffè al bar Marocco davanti alla cattedrale normanna e riprovo a chiedere. Niente. Ciccio è meno loquace del solito. Scoprirò, ma soltanto qualche mese dopo, che i poliziotti ormai hanno capito quasi tutto di cosa è avvenuto dentro la mafia.

Il capo dell’Investigativa Ninni Cassarà ha una fonte che gli sta svelando ogni mistero, uno che poi diventerà insieme a Tommaso Buscetta uno dei due grandi pentiti del maxi processo del giudice Falcone. La fonte di Cassarà è Salvatore Contorno, forse l’amico più fedele di Bontate. Ma è ancora un segreto. Cassarà gli dà un nome in codice: “Prima Luce”.

© Riproduzione riservata