Con più di 26 mila positivi al Covid 19, 1632 ricoverati di cui 166 in terapia intensiva, 24.344 persone in isolamento domiciliare nel Lazio, è in corso da mesi una disputa tra la regione e la galassia degli ambulatori privati della sanità laziale su chi debba effettuare i test molecolari per la diagnosi del virus.

L'ultimo atto è andato in scena, qualche giorno fa, quando il Tar del Lazio, sconfessando se stesso, ha annnullato l'ordinanza del presidente della Regione del 6 marzo scorso, e gli atti conseguenti, con cui erano state adottate previsioni relative all'esecuzione di esami molecolari per la ricerca del virus, istituendo la rete pubblica di laboratori altamente specializzati certificati dallo Spallanzani. Della rete, CoroNETLazio, fanno parte gli ospedali Gemelli, Columbus e Bambin Gesù.

Il Consiglio di Stato a luglio aveva  stabilito che la rete Coronet «é idonea a gestire, tracciare, elaborare la sottoposizione a test senza che l’auspicato contributo privato sia di decisiva utilità». L’esistenza dei falsi positivi e negativi, infatti «deve condurre a un impegno sempre più forte per ridurne la percentuale» e ciò «appare realizzabile meglio e in più breve tempo se il sistema dei test sia concentrato in una rete di presidi per lo più pubblici, di grandi dimensioni, ovvero sedi di corsi universitari, con la guida - di assoluta e indiscussa affidabilità - all’ISMI Spallanzani».

Pochi giorni fa, la decisione è stata ribaltata in appello aprendo di fatto il settore anche a tutti i privati perchè «non esiste ragione sanitaria per cui l'esame non debba essere svolto da più soggetti possibili senza che ciò determini una sottrazione di risorse pubbliche. È, infatti, il solo esame diagnostico che al momento consente di individuare i soggetti infetti e di applicare i protocolli di isolamento e tracciamento, unica vera alternativa al confinamento generalizzato».

Il doppio passaggio

Finora , presso gli istituti accreditati, era possibile svolgere l'esame rapido al costo di 22 euro, mentre per quanto riguardava il test successivo in caso di esito positivo, toccava alle strutture stesse inoltrare il campione alle autorità sanitarie competenti, che avrebbero provveduto a processarlo, risparmiando al paziente la coda ai drive-in intasati. «Sabato la app Immuni mi ha segnalato che ero stato in contatto con una persona infetta, così il mio medico di famiglia mi ha prescritto il test – racconta Emanuele, quarantenne romano – pur avendo prenotato online, cosa non facile perché non si trova facilmente posto, ho fatto quattro ore di fila al Centro Carni sulla Palmiro Togliatti».

Ci sono anche cinque bagni chimici, tre con il cartello “sintomaci” e due con il cartello “asintomatici”, con il risultato che molti preferiscono il prato. È andata peggio a Fabiana e alle sue due bimbe. Si sono messe in fila al drive in di Fiumicino, avevano tutti i sintomi del Covid e un familiare già positivo in casa. Secondo il protocollo dell'Istituto superiore di sanità, avrebbero dovuto accedere direttamente al test molecolare e invece prima hanno aspettato undici ore in macchina e poi, una volta avuto l'esito, sono state richiamate per il molecolare. «Alla fine abbiamo fatto il test alle 3 di notte. Però il test rapido si poteva evitare, tanto erano evidenti i segni del virus. È anche una questione di costi».

I test rapidi sono diventati quelli più usati perché sono economici e, nonostante abbiano un alto grado di fallibilità, riescono a dare un risultato in 15-30 minuti, al contrario dei molecolari che richiedono più tempo e in caso, di alti flussi, anche giorni. I rapidi sono preferiti quando bisogna fare i cosiddetti screening di comunità o tracciamenti rapidi come negli aeroporti e sono consigliati per tutti coloro che non presentano sintomi.

Ad oggi nel Lazio si fanno circa 23mila tamponi al giorno ed è chiaro che la cosa faccia gola ai molti ambulatori sparsi sul territorio che in questo momento potrebbero alleggerire il carico di pazienti in coda ai drive in e guadagnare molto da un test che si candida a entrare nel paniere Istat. La Regione finchè ha potuto ha cercato di mantenere il monopolio pubblico sulla gestione, ma i numeri dei contagi e le chilometriche code hanno indotto un graduale ripensamento.

L'ultima decisione del Tar ha archiviato di fatto anche la manifestazione di interesse che recentemente la Regione aveva bandito per eseguire i test molecolari di conferma. Un avviso che si rivolgeva solo ai grandi centri in grado di processare 5.000 test al giorno per una tariffa massima unitaria di 60 euro. Un affare da 300.000 euro al giorno per chi si fosse aggiudicato la partita.

A un certo punto la rete andava allargata, così il 16 ottobre scorso l'assessore regionale alla Salute, Alessio D'Amato, aveva annunciato che, grazie ad un accordo con il sindacato Fimmg, 311 medici di famiglia avevano accettato di svolgere i test presso i loro studi. Una adesione molto bassa.

A dare una mano arriva il governo. Nel decreto legge Ristoro, varato martedì, sono previsti 30 milioni di euro per effettuare a carico dello Stato i test presso i medici di famiglia, introducendo l'obbligatorietà per i camici bianchi. Un accordo che ha causato una rottura sindacale, ha aderito soltanto la Fimmg, che aveva già firmato nel Lazio. La Fp Cgil critica la misura: «Due milioni di test da distribuire entro fine anno a 53 mila medici di famiglia su tutto il territorio nazionale significa che ognuno farà un solo tampone al giorno. Valeva per davvero la pena di organizzare tutto questo per un risultato così piccolo?».

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