L’indagine della procura di Roma su Mario Paciolla non è ancora conclusa, e il silenzio è tombale, ma nonostante questo ci sono due certezze sulla morte del 33enne napoletano che operava per le Nazioni unite nella missione di pace in Colombia. Una riguarda la messa in scena del suo suicidio, e l’altra il ruolo opaco dell’Onu.

La simulazione del suicidio

L’Onu inquadra da subito, nei suoi registri, la morte di Paciolla come un suicidio. La polizia locale di San Vicente del Caguan trova il cadavere la mattina del 15 luglio 2020, e all’epoca il colonnello Oscar Lamprea riferisce che «la morte è avvenuta in circostanze poco chiare», parla di lacerazioni sui polsi. Sui media colombiani rimbalza l’ipotesi del suicidio per impiccagione, ma ci sono molte incongruenze. «Le autorità continuano a non fornirci informazioni ufficiali su questa morte», scrivono all’epoca i cronisti del giornale colombiano Semana. Due anni fa è l’Onu a comunicare alla famiglia Paciolla che il ragazzo «si è suicidato», chiede l’autorizzazione per l’autopsia, dice che all’esame prenderà parte un certo Jaime Hernan Pedraza: ai familiari viene riferito soltanto che è un medico legale autorizzato, ma non che è il capo del dipartimento medico della missione Onu. A fine luglio 2020 anche la Farnesina dice a Domani che «all’esame ha partecipato un medico di fiducia della missione». C’è quindi una prima autopsia, in Colombia, la pratica un medico colombiano ma assiste anche il medico Onu. L’autunno seguente l’esito filtra sulla stampa colombiana: «La morte è compatibile con il suicidio», si parla di soffocamento. Il corpo di Paciolla arriva in Italia il 24 luglio 2020, e l’autorità giudiziaria a Roma dispone un’altra autopsia.

Ma in Colombia il corpo è partito ricomposto, ricucito, svuotato degli organi e riempito. Il verbale dell’autopsia colombiana arriva in Italia con insolito ritardo; passano settimane prima che a Roma si possano leggere le note di chi ha effettuato la prima analisi, come apprende Domani da fonti italiane. Intanto dalla Colombia – alla quale le nostre autorità giudiziarie si sono dovute rivolgere con svariate rogatorie, la prima ad agosto 2020 – filtrano estratti che riguardano gli esami svolti in Italia. Ne scrive Claudia Julieta Duque, giornalista colombiana e amica di Paciolla che da subito ha diffidato dell’ipotesi del suicidio: sapeva da Paciolla che c’era qualcosa che lo aveva indignato e spaventato, al punto da prepararsi una via di fuga nell’appartamento. Secondo quanto riporta ora la giornalista colombiana, Paciolla sarebbe stato «torturato e ucciso» e tra le evidenze ci sarebbe il fatto che alcune ferite sul braccio sono state operate a corpo morente e poi deceduto; c’è poi la simulazione della impiccagione per nascondere che Paciolla sarebbe stato strangolato.

Finché la procura di Roma non chiude le indagini e toglie il segreto dall’autopsia italiana, non avremo una verità ufficiale. Ma fonti italiane riconoscono nella versione riportata da Duque almeno un fatto autentico e cioè che il suicidio pare una messa in scena.

Le tensioni nella missione

«Non erano passate 24 ore dalla consegna a New York dell’ultimo rapporto della missione di verifica delle Nazioni unite in Colombia quando uno dei tuoi colleghi ti ha trovato morto, mio amico poeta», scriveva Duque due anni fa. La paura che Mario Paciolla prova nei giorni che precedono la sua morte è legata a quello che succede all’interno della sua missione Onu. «Mio figlio era terrorizzato», riferisce la madre, Anna Motta, sin dall’estate 2020. L’inquietudine di Mario era legata a «qualcosa che aveva visto, capito, intuito». Durante una telefonata con la sua famiglia, Paciolla racconta di aver sbottato con alcuni suoi capi; riferisce di aver parlato chiaro e di essersi «ficcato in un guaio».

Il responsabile sicurezza

Paciolla voleva tornare a Napoli, al sicuro, dalla sua famiglia. Luglio 2020 è tempo di pandemia, e per poter volare fino in Italia bisogna appoggiarsi a un volo umanitario, servono inoltre i documenti per la partenza «e solo l’Onu poteva prepararli a mio figlio», racconta il padre, Giuseppe Paciolla. Questo significa anche che «solo l’Onu sapeva che Mario aveva un biglietto in tasca per tornare in Italia il giorno 20 da Bogotà». Nell’estate di due anni fa, il responsabile sicurezza della missione di Mario era Christian Leonardo Thompson. Prima di lavorare per l’Onu, Thompson è stato sottufficiale dell’esercito colombiano, dal 2001 al 2006, e dal 2017 al 2019 specialista della sicurezza dell’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti (Oti-Usaid). Ha lavorato anche come mercenario della sicurezza privata, pure per multinazionali Usa come Thor. Nell’estate 2020, pochi giorni dopo la morte di Paciolla, ha però oscurato il curriculum su LinkedIn.

Stando a quel che è trapelato, di Thompson negli ultimi tempi Mario non si fidava, ed è lui uno degli ultimi contatti telefonici prima della morte. Dopo la morte, comincia «il depistaggio dell’Onu», come lo chiama la mamma di Paciolla. «Violazione di domicilio, usurpazione di funzioni pubbliche, occultamento, alterazione e distruzione di prove» sono i termini della denuncia presentata dai genitori Paciolla questo mese alle autorità colombiane.

La denuncia coinvolge anche quattro poliziotti colombiani, per quel che a Thompson lasciano fare, e un altro funzionario Onu, Juan Vásquez García, anche lui sul posto.

Il posto è l’appartamento di Paciolla, dove il corpo senza vita viene ritrovato. Non è un appartamento dato in dotazione dall’Onu, sottolineano i genitori, il che rende ancor più anomala la mossa di Thompson che, nei momenti cruciali per l’accertamento della verità, «tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo», recita la denuncia dei genitori.

Tracce e memorie spazzate via

Il gesto più eclatante di depistaggio da parte di Thompson è quello di candeggiare la scena della morte: ha pulito la casa dopo la morte di Paciolla. Ma le anomalie sono numerose, e vanno dalle tracce cancellate ai documenti sottratti. Nell’appartamento di Paciolla ci sono oggetti con campioni biologici, insomma dettagli cruciali per le indagini. Thompson fa qualche foto, ma quelle tracce non vengono acquisite nel modo appropriato dai poliziotti sul posto. C’è di più, come ricostruito nella denuncia dei genitori: «Il materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto».

A due anni dalla morte di Mario, risultano tuttora scomparsi l’agenda e i quaderni dove Paciolla annotava pensieri e fatti. La perdita è doppia: perdiamo le tracce delle sue analisi sulla realtà colombiana, che anni prima aveva pubblicato anche su Limes con lo pseudonimo di Astolfo Bergman. E si può supporre che perdiamo anche tracce importanti di quello che «aveva visto, capito, intuito» e che lo aveva sconvolto. Sono rimasti almeno i dispositivi informatici? «Per quel che sappiamo – risponde la mamma di Paciolla – il pc e il cellulare personali li ha la procura colombiana, ma quelli di servizio li ha l’Onu». Il mouse è stato rinvenuto, insanguinato, nella sede della missione Onu, stando alla giornalista Duque.

L’opacità e le reazioni

Nel 2021 il funzionario Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, ruolo dal quale ha ancor più margine di azione.

Intanto le Nazioni unite, che a Domani dicono di garantire «piena collaborazione», a chi è dentro il caso non risultano affatto collaborative.

L’avvocata della famiglia Paciolla lo ha detto pubblicamente, mentre la Farnesina lo fa intendere nelle sue risposte a Domani, quando dice che è stato necessario «sollecitare i competenti organismi delle Nazioni unite a una maggiore collaborazione da parte della missione in Colombia». I parlamentari italiani che da subito hanno seguito il caso, come Erasmo Palazzotto e Sandro Ruotolo, hanno intenzione di scrivere alle Nazioni unite. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, dice che «gli ultimi sviluppi che chiamano in causa l’Onu rendono ancor più urgente accertare la verità e serve una mobilitazione a più livelli che coinvolga parlamentari di buona volontà, media e società civile».

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