Vi siete mai chiesti perché solo oggi sentiamo parlare di un importantissimo documento sequestrato al suo proprietario, Licio Gelli, all’inizio degli anni Ottanta? Parliamo del documento Bologna sul quale si fonda l’attuale processo ai mandanti della strage alla stazione del 2 agosto 1980 istruito dalla procura generale del capoluogo emiliano. Un documento che proverebbe il finanziamento da parte del sistema della P2.

La storia

È il 13 settembre 1982. A Ginevra Licio Gelli, ormai noto capo di una organizzazione massonica occulta chiamata P2, scappato dall’Italia, sta per entrare nell’agenzia della banca Ubs ma viene bloccato e arrestato dalla polizia locale. Porta con sé varie carte, tra le quali una che reca l’intestazione Bologna 525779 - x.s. È quindi da quasi quarant’anni, da quando è stato sequestrato al suo proprietario, che quel documento, non più protetto tra i segreti della P2, è a disposizione delle autorità giudiziarie. Ma per quasi quarant’anni è rimasto invisibile.

Passa di mano in mano, esce dalla borsa di Gelli durante l’arresto svizzero e resta per un po’ nei cassetti delle autorità di quel paese. Quattro anni dopo la procura di Milano (16 luglio 1986) invia di persona il capitano Francesco Falbo a prenderlo, finisce nel faldone 123 del fascicolo del processo sulla bancarotta dell’ex Banco ambrosiano e lì resta a lungo. Nel frattempo quel foglietto, pieno di conteggi, nomi, e l’intestazione Bologna, viene esaminato dagli esperti della Guardia di finanza che nel 1987, in un rapporto per i giudici istruttori che indagano sul fallimento dell’istituto bancario, ammettono: «Non si riesce allo stato attuale a dare un significato ben preciso al riferimento alla città di Bologna riportato nell’intestazione del documento».

Il documento finisce in un cassetto nonostante Gelli e i suoi compari proprio in quegli stessi mesi siano sotto processo per depistaggio delle inchieste sulla strage di Bologna (il primo grado inizia nel marzo del 1987 e finisce nel novembre dell’anno successivo). Nessuno pensa a un nesso. E poi c’è quel numero: 525779-x.s.

Si scopre che corrisponde a un conto corrente acceso alla Ubs di Ginevra da Licio Gelli, che rivela due flussi di somme distratte dal Banco ambrosiano, una da 10 miliardi di dollari l’altra da 9. Le movimentazioni passano attraverso i conti degli stretti collaboratori di Licio Gelli, tra i quali Marco Ceruti e Umberto Ortolani. Incrociati quei movimenti di denaro con altri documenti si capisce che un sacco di soldi sono stati spostati in prossimità della data della strage. Ma nessuno dà troppo peso alla cosa.

L’avvocato

Un recente rapporto della Guardia di finanza (trasmesso alla procura generale di Bologna il 25 novembre del 2019) e che Domani ha potuto visionare ci aiuta a saperne di più. Infatti svela che la sera del 14 maggio 1987, intorno alle otto della sera, Fabio Dean, avvocato di Licio Gelli, si presenta nell’ufficio del direttore centrale della polizia di prevenzione, Umberto Pierantoni. Ha chiesto di essere ricevuto con una certa solerzia, anche se, entrando, dice «grazie dell’invito», tanto che l’altro gli fa notare «veramente abbiamo ricevuto una richiesta di incontro». L’avvocato comincia a girare intorno a varie cose ma poi finalmente va al punto: «Tra i documenti sequestrati al Gelli nel 1982 (durante il suo arresto) vi sono appunti con notizie riservate che spetterà poi a Gelli avallare o meno, sulla base del come gli verranno poste le domande stesse». E aggiunge: «Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli allora lo farà».

Insomma, Dean sa che prima o poi il suo cliente verrà interrogato e decide di giocare d’anticipo, anche con una minaccia non troppo velata. L’inedita conversazione è riportata in un documento classificato riservatissimo redatto la sera dopo l’incontro, su cui è scritto “Appunto per l’on.le ministro” (si presume l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro), firmato da Vincenzo Parisi, allora capo della polizia.

C’era proprio da scomodare le alte cariche dello stato? Secondo gli analisti della Guardia di finanza l’emissario del venerabile Gran maestro ha bussato alla porta di Parisi proprio perché tra quelle carte c’era qualcosa di imbarazzante e pericoloso per Gelli e i suoi amici, il documento Bologna 525779 -x.s.

La stessa relazione spiega che una volta sola Gelli è stato interrogato al riguardo: il 2 febbraio del 1988 dai giudici istruttori Renato Bricchetti, Antonio Pizzi e dal pm Pierluigi Dell’Osso.

Questi, che hanno nei cassetti l’originale del documento Bologna, sono loro che hanno inviato Falbo a prenderlo in Svizzera, mostrano inavvertitamente all’indagato Gelli una fotocopia del documento che, fatalmente, nasconde sul retro l’intestazione Bologna. Gelli lo guarda, ci pensa su, dice che non si ricorda niente e promette di fare mente locale. Punto. Laconicamente il rapporto dei finanzieri dello scorso novembre allude a un legame tra quelle velate minacce e il modo «in cui venivano poste le domande a Gelli sugli appunti con notizie riservate tra cui il documento Bologna».

Abbiamo chiesto qualche particolare in più al dottor Renato Bricchetti, oggi presidente della VI sezione penale della Cassazione, che ha voluto rispondere solo via mail dicendo di avere «ricordi sfocati. Ho il ricordo, oltre che della persona dell’interrogato e dei suoi difensori, di un interrogatorio inutile ai fini della acquisizione di elementi confermativi dei fatti di bancarotta contestati e per i quali è intervenuta condanna. Conservo a Milano carte di quell’istruttoria. Dovrei verificare. Buona serata».

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