«Chiedo un supporto al premier italiano, Giuseppe Conte, affinché mio figlio venga liberato». Questo è l’appello di George Zaki, il padre di Patrick Zaki. Lo abbiamo contattato qualche ora dopo la decisione della terza Corte antiterrorismo del Cairo, che ha deciso di rinnovare la detenzione di suo figlio per altri 45 giorni. George ha la voce stanca e la sua salute è provata dopo dieci mesi di lotta per liberare il figlio.

«Patrick sta studiando in una delle università più prestigiose del mondo, a Bologna», dice. «E soprattutto, vorrei dire al primo ministro Conte che mio figlio appartiene anche all’Italia. Ha anche un po’ di sangue italiano perché la sua trisavola era italiana». George Zaki è un fiume in piena. Sa che sarà il primo Natale della sua vita senza Patrick a casa (la famiglia Zaki appartiene al dieci per cento della minoranza cristiano copta del paese). «Questa cosa per me è troppo difficile da superare perché passare un Natale così sarà come un giorno qualsiasi, sarà un giorno terribile».

Un Natale diverso

Mentre lo intervistiamo al suo fianco c’è anche Marize, la sorella minore di Patrick. È una ragazza minuta e timida ma in questi dieci mesi, durante i quali ha preso in mano la campagna di liberazione per suo fratello, a sua insaputa si è scoperta una combattente. Ha imparato a parlare inglese in maniera quasi perfetta e anche nella sua lingua madre è diventata più sciolta e decisa. «Siamo davvero arrabbiati questa volta», dice. «Come abbiamo sempre detto non c’è nessuna ragione per cui Patrick debba restare in carcere, ciò che sta succedendo è totalmente illegale». La preoccupazione della famiglia è tanta. «Patrick non sta bene», dice Marize. «Ha mal di schiena perché dorme per terra da dieci mesi. Non capiamo cosa stia succedendo e non sono in grado di spiegarmi perché si trovi ancora in una cella, a Tora».

Il padre di Patrick aggiunge che il prolungarsi della vicenda sta facendo sprofondare l’intera famiglia nella disperazione. «Non ci aspettavamo questo rinnovo», dice. «Pensavamo che stavolta sarebbe stato diverso, che lo avrebbero liberato come i suoi colleghi (i tre vertici di Eipr rilasciati lo scorso 3 dicembre ndr). Ma sfortunatamente non l’hanno fatto». Il signor Zaki non ha potuto vedere il figlio durante l’udienza di sabato scorso perché non era consentita la presenza dei familiari. Ad aspettare fuori c’era solo Marize.

«Patrick è un ragazzo di talento, vuole aiutare le altre persone, non solo in Egitto, ma in tutto il mondo. Io non capisco perché le autorità egiziane lo ritengano pericoloso», continua la sorella. «Siamo riusciti a fargli avere del cibo ma per i libri dell’università, per farlo continuare a studiare, c’è poco da fare: non abbiamo potuto consegnarglieli né trovare una soluzione con i suoi avvocati per la didattica a distanza».

(I fratelli Marize e Patrick Zaki da piccoli. Uso della foto concesso a Domani dalla famiglia Zaki)

La difesa impossibile

Gli appelli, arrivati da tutto il mondo, per la liberazione del giovane ricercatore non sono bastati. Nessuno sconto, nessuna concessione. Ancora una volta nessuna preoccupazione per il regime del Cairo di apparire repressivo di fronte alla comunità internazionale.

«Non possiamo pianificare una strategia difensiva perché è una cosa che non si può fare alla Corte del riesame per la custodia cautelare», dice Hossam Baghat, attuale direttore di Eipr. «Per pianificare una difesa è necessario un rinvio a giudizio e sappiamo che per decine di migliaia di egiziani questa cosa potrebbe non accadere mai. Pensate a quello che è successo sabato, nella cella di plexiglass con Patrick c’erano circa 700 detenuti, tutti indagati. Pareva un enorme campo di rieducazione cinese».

Dopo questo rinvio che ha deluso le speranze anche gli analisti più esperti del paese non sanno più cosa dire. «Il sistema giudiziario egiziano può essere descritto solo come un circo arrivato direttamente dall’inferno», dice Vivienne Matthies-Boon, professoressa di scienze politiche all’università di Amsterdam; a lungo, nelle sue ricerche, si è occupata del sistema di polizia in Egitto.

Il doppio volto di Macron

Intanto, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi è in Francia impegnato in una visita diplomatica e ieri ha incontrato il presidente Emmanuel Macron. Sul tavolo la questione libica, la cooperazione militare e il dibattito sull’islam francese. Sui diritti umani, durante la conferenza stampa Macron ha affermato che «con l’Egitto abbiamo disaccordi, ne parliamo in modo molto franco col presidente al Sisi», escludendo però di voler «condizionare» la vendita di armi francesi all’Egitto al rispetto dei diritti umani. Gli ordini della armi francesi dal Cairo sono aumentati nel 2015 con la firma di due importanti contratti da oltre 6,4 miliardi di dollari. Il business continuerà nei prossimi anni. Il regime egiziano gongola e continua ad agire in piena impunità. «È assolutamente scandaloso che Macron non solo riceva al Sisi per una visita ma che non ponga le condizioni dei diritti umani sulla vendita di armi» dice Matthies-Boon. «Con il numero di arresti e morti totalizzati dal regime, al Sisi dovrebbe andare alla corte criminale internazionale e invece è accolto col tappeto rosso. Ha la ferocia di un Pinochet e nessuno fa nulla».

Il silenzio di palazzo Chigi

Sul fronte italiano, la Farnesina ora tace così come la presidenza del Consiglio. Dal Pd e dai Cinque stelle arrivano dichiarazioni isolate; sembrano non rappresentare la posizione del governo a cui appartengono. Il segretario dei democratici, Nicola Zingaretti, ha detto che «la decisione su Zaki è ingiusta, inumana». L’europarlamentare Pierfrancesco Majorino ha chiesto il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo; la senatrice dal M5s Michela Montevecchi definisce il rinnovo della detenzione «sconcertante». Alla famiglia Zaki è rimasta solo la preghiera. «Ci serve un miracolo, prego Gesù tutti i giorni», conclude papà George. «Chiedo a tutto il mondo di supportare la causa di mio figlio e di pregare per noi».

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