Lo smart working che non era lui. È l’impressione più netta che si ricava guardando da vicino il “lavoro agile” e valutandone la dimensione di fenomeno sociale, o la sua percezione generalizzata, o la comunicazione che ne circola nel vasto tessuto del discorso quotidiano. Da oltre un anno parliamo di un oggetto che ha assunto una forma preterintenzionale e alimentiamo uno slittamento semantico divenuto irrimediabile. Perché ormai lo smart working (Sw) è questa cosa qui, come lo sono tutte le cose a partire dal senso che si attribuisce loro e nella misura in cui vengono comunicate e credute.

Scaraventati senza preavviso dentro la nuova modalità che mixa tempo di lavoro e tempo della vita, ci siamo adattati come ci è riuscito. Impossibilitati a chiederci se davvero si trattasse di Sw e non di una serie di approssimazioni, in qualche caso molto lontane dal modello disegnato. Talmente lontane da lasciar pensare che “questo” Sw sia un’occasione persa, che ormai abbia preso forma difforme e non più rimediabile.

Questa prospettiva emerge da un programma di ricerca, sviluppato su 41 interviste in profondità, condotto in Toscana tra fine dicembre 2020 e marzo 2021 su impulso della Fisac Cgil di Siena e della Toscana, con la collaborazione della Cgil regionale, incentrato sul settore del credito e dei servizi finanziari. Gli intervistati, equamente distribuiti per genere e età, sono dipendenti di mansioni e gradi diversi in Monte dei Paschi di Siena, Intesa San Paolo e Nexi. Dall’elaborazione dei dati, le cui risultanze definitive saranno contenute in una pubblicazione prevista per l’autunno, emerge un quadro di estrema complessità, che prefigura una ristrutturazione in corso di cui soltanto col ritorno alla normalità si potrà cominciare a cogliere gli effetti.

Chiamalo col suo nome

Questione numero uno: è davvero “smart” o stiamo vivendo un enorme equivoco? Secondo la definizione data dal ministero del Lavoro è Sw «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro». Ciò che si ricava dalle parole degli intervistati corrisponde a questa definizione? Praticamente mai. Perché in termini generali quello fatto dagli intervistati è il lavoro d’ufficio fatto in orario d’ufficio e con tempistica d’ufficio, ma da casa. Home working, se proprio si vuole insistere con l’inglesorum.

Qualcuno è consapevole della differenza e la illustra in modo schietto come fa Luigi, 41 anni, settore operations: «Lo Sw io non lo conosco perché quello che facciamo noi non è Sw. Per cui lo definirei male. Potrei definire invece quello che stiamo facendo come Remote working (Rw), che sarebbe una buona base per mettere giù e contrattualizzare ciò che dovrebbe essere lo Sw, perché non credo che con questo Rw si possa andare dopo la fine dello stato di emergenza». Sono molte altre le risposte piene di consapevolezza rispetto allo scarto fra ciò che dovrebbe essere e ciò che effettivamente viene fatto. Ma anche chi si limita a rispondere dicendo ciò che fa non si discosta da quella rappresentazione. Sicché lo Sw è «la possibilità di lavorare da casa data dal datore di lavoro» (Fabio, 53 anni, addetto linea valore), o «un modo di lavorare da casa, o comunque da altri posti diversi dalla sede di lavoro» (Marina, 45 anni, amministrativa), o «lavoro che si svolge a casa con un computer, come in ufficio, manca solo il contatto col pubblico» (Sabina, 54 anni, impiegata).

E poiché la caratterizzazione domestica dello Sw diventa un motivo condiviso ne deriva che le conseguenze vengano valutate quasi sempre col parametro della vita personale anteposto a quello dell’organizzazione del lavoro. Con espressioni che vanno da un estremo («Con lo SW sono rinata», ancora Marina) all’altro («Una fregatura. Sono a casa ininterrottamente da marzo 2020 e dove abito ho pure problemi di connessione», Domitilla, 52 anni, settore contabilità).

Il giudizio oscilla anche a seconda delle mansioni svolte. Alcune fra le quali sono proprio non declinabili in Sw. Come quella di Moreno, 57 anni, che in filiale fa il cassiere e inoltre, per ragioni di salute, non è stato mai fatto rientrare in filiale nemmeno dopo che, passata la fase più rigida del lockdown, nella sua sede di lavoro è stata avviata l’alternanza per squadre: «Chiamo giorno per giorno i colleghi per chiedere che mi diano qualcosa da fare, mi devo quasi prostituire per riuscire a sbarcare la giornata. Ho anche fatto tutti i corsi di formazione che l’azienda ha messo a disposizione per compensare le fasi di inattività, ma la verità è che per la gran parte non mi tornano utili perché non hanno valenza sul piano applicativo».

Un tempo fluidificato

Ma c’è anche chi discerne fra le esigenze personali e quelle del ruolo lavorativo. È il caso di Emilia, 34 anni, settore premium. Due gravidanze ravvicinate l’hanno tenuta a lungo lontana dal luogo di lavoro, poi al momento di rientrare è arrivato il lockdown. La permanenza in casa, prima di tornare al lavoro alternato per squadre in filiale, le ha permesso di risparmiarsi un pendolarismo da circa un’ora e mezza giornaliere, e in questo senso la soluzione dello Sw è stata “positivissima”.

Ma c’è anche da valutare l’altra parte della questione: «Sono stata a lungo lontana dal posto di lavoro e di conseguenza avevo concreto bisogno di aiuto, di formazione per rientrare nel ruolo, dunque dei colleghi. Di chi mi spiegasse come sono cambiate le cose mentre non c’ero. Quell’aiuto lì è insostituibile, anche per chi svolge una mansione individuale come la mia. Che poi anche per le mansioni individuali la dimensione di gruppo è importante perché il confronto coi colleghi ti aiuta a superare i problemi». E quanto all’utilizzo dello Sw in alternanza dà un’indicazione che nelle interviste è ricorrente: «Lo Sw diventa un tempo protetto per determinati adempimenti. Serve a predisporre il lavoro da fare in filiale. Perché sul lavoro hai continue distrazioni, dal chiasso dei colleghi al cliente che si presenta senza appuntamento ma devi comunque assisterlo. A casa invece la concentrazione è piena».

Già, la concentrazione. Che si sviluppa meglio in casa che sul posto di lavoro («In ufficio tocca ascoltare la musica in cuffia per concentrarmi, a casa no» dice Ilaria, 48 anni, direzione generale). Ma la variabile davvero rivoluzionata è quella del tempo.

Lo si scopre in modo quasi causale, grazie a una di quelle domande la cui complessità emerge soltanto dopo essere stata posta nelle prime interviste: «Quando è in Sw le sembra di lavorare di più o di meno rispetto a quando è in ufficio?». Interrogativo che come risposta suscita un contro-interrogativo: «Intende chiedermi se lavoro per un numero maggiore di ore durante il giorno, o se lavoro di più nello stesso numero di ore?». Ecco una questione essenziale: in Sw si lavora di più in estensività o in intensività? Dalle risposte si evince che, in entrambi i sensi, si lavora “molto di più”.

Diritto alla disconnessione

Parecchi lavorano oltre l’orario d’ufficio. Anche molto oltre. «Certe mattine mi capita di leggere mail inviate da colleghi il giorno prima a orari improponibili» riferisce Alessandro, 59 anni, addetto al back office che si trova in Sw quasi ininterrottamente dall’inizio della pandemia. E si tratta di una tendenza a cui molti finiscono per cedere. Ma c’è anche l’altro aspetto, quello della maggiore produttività del lavoro durante il medesimo arco di tempo. Lavorare da casa favorisce la produttività, si tratta di un’indicazione sulla quale c’è una diffusa concordanza. Ma se la produttività aumenta sarà mica il caso di rivedere al rialzo le retribuzioni? Ecco un tema che potrebbe porsi, nel contesto di un riequilibrio complessivo che riguarda costi di gestione e utili d’impresa. Nel dibattito sullo Sw il tema dell’accresciuta produttività del lavoro entra di soppiatto e stenta a rendersi visibile.

È invece ben presente il tema del tempo di lavoro che si estende e sfiora la dismisura, con effetti che rischiano di essere deleteri per chi si attiene con scrupolo all’orario di lavoro. Racconta Riccardo, 36 anni, tecnico di consorzio: «Quando mi capita di fare tardi la sera vedo che ci sono le solite 7-8 persone che sono sempre connesse e c’è invece chi decide, al suo orario, di spegnere il computer e andare via. E va bene trattenersi un po’ più a lungo se c’è una necessità, ma se succede sempre va a finire che io mi senta quasi un bandito perché ho lasciato lì gli altri a lavorare». Questione molto scivolosa. Perché, estratto dal suo contesto spaziale, l’ufficio, e trapiantato nello spazio domestico, il lavoro perde anche gli argini. La possibilità di connettersi in qualsiasi momento elimina ogni limite e c’è chi per alto senso della missione, o malinteso patriottismo aziendale, finisce per alzare l’asticella dell’impegno a scapito di altri. In cambio di un salario che rimane immutato. È anche tenendo conto di questo aspetto che si impone adesso più che mai la riflessione sul diritto alla disconnessione, la libertà dal lavoro nell’epoca in cui il cellulare e le mail aziendali rendono raggiungibili e reperibili anche la notte o nei festivi. Ma è davvero una questione di diritto alla disconnessione, o piuttosto si tratterebbe di imporla, la disconnessione, a aziende e dipendenti? «Può succedere che non si arrivi a darsi delle regole – confessa Lisanna, 45 anni, settore formazione, che strappa un’ora fra una conference call e l’altra per sottoporsi all’intervista – e non c’è nessuna imposizione a lavorare a questi ritmi. Va a finire che sei tu a volerlo. Questo modo alla lunga è deleterio anche per l’azienda».

Ristrutturazioni in corso

È uno strano panorama umano quello del lavoro nel tempo dello Sw. Dove i poli estremi non sono occupati da lavoratori coscienziosi e imboscati, ma da lavoratori coscienziosi e stakanovisti a rischio workaholic. Categoria, quest’ultima, a cui s’iscrivono i responsabili di struttura o di team, travolti dall’alchimia da loro avviata di riunioni e conference convocate a raffica per continuare a mantenere una parvenza di controllo in condizioni così mutate. «Per certe cose lo Sw non è gestibile se non vengono corretti alcuni aspetti gerarchici – afferma Giancarlo, 49 anni, addetto al credito –. Il problema è che chi non sa gestire un team finisce per partecipare a tutte le riunioni a distanza. Poi magari non interviene ma sta lì, o passa da una riunione all’altra quando invece bisognerebbe limitare il numero di riunioni cui ognuno partecipa. E invece va a finire che sei sempre online e che ti ci vedono, online, perciò si sentono autorizzati a mandarti una mail o a contattarti».

Tutto ciò è il segno di una ristrutturazione in corso. E tale ristrutturazione si sta muovendo su tutti i livelli. A partire dai luoghi di lavoro, che quando sarà finita l’emergenza da pandemia non saranno più quelli di prima. Lo svuotamento degli uffici ha comportato un imponente taglio dei costi: pulizia, riscaldamento o aria condizionata, energia elettrica, carta, stampanti, manutenzioni, tutte voci la cui incidenza è precipitata. Nel complesso rientra anche il ticket restaurant, il cui taglio viene contestato quasi all’unanimità dagli intervistati.

Ma le aziende possono contare soltanto sul risparmio e sul taglio dei costi per rilanciarsi nel pieno della crisi pandemica? Domanda che direzioni e azionisti farebbero bene a non ignorare, perché la dimensione del lavoro di gruppo, che nel frattempo si è ritratta, è anche un incubatore di idee e soluzioni che non può essere sacrificato tout court alla ragione della compressione dei costi. Eppure la prospettiva che emerge dalle interviste è questa: alternanza stabilizzata sul luogo di lavoro, all’interno di unità lavorative meno estese e senza postazioni fisse. Per molti la “propria scrivania" rimarrà un ricordo del periodo pre-pandemia. Il nuovo regime sarà l’accesso d’ufficio su prenotazione con postazione variabile.

Questa ristrutturazione complessiva è la più vasta eredità dello Sw, che adesso viene accolto come una formula positiva dopo essere stato visto con sospetto, se non osteggiato, prima che giungesse il Covid. Racconta ancora Ilaria: «Facevo già lo Sw prima della pandemia. Ma fino a quel momento i nostri responsabili non lo vedevano di buon occhio. Non ci fornivano nemmeno il pc aziendale per lavorare da casa. Toccava andare a recuperare dagli armadi i portatili lasciati in eredità dai dipendenti andati in pensione e ce li dovevamo giostrare fra tutti coloro che facevano lo Sw». «Sì, da parte dei responsabili c’era diffidenza nei confronti dello Sw – conferma Roberto, 45 anni, addetto al reparto tecnico informatico –, quasi lo boicottavano. Penso che lo vedessero come un modo di perdere il controllo, di allentare le redini che hanno sempre avuto tra le mani. Ma ora hanno cambiato idea. E hanno cominciato a sperimentare la formula degli uffici condivisi. Dicono che sono progetti pilota ma in realtà le decisioni sono già state prese». In questa traiettoria dello Sw per come è stato percepito da chi nelle aziende riveste ruoli gerarchicamente superiori, col repentino passaggio da elemento di fastidio perché significava perdita di controllo a insperata opportunità per avviare una vasta ristrutturazione, c’è tutto il senso di una preterintenzionalità che è la reale cifra dello Sw all’italiana. Una formula che avrebbe dovuto essere un mix fra razionalizzazione aziendale e diritto del lavoratore, e che invece usata nell’emergenza ha destrutturato il luogo di lavoro come comunità consegnando alle direzioni uno strumento per rivoltare le relazioni industriali, l’organizzazione del lavoro e la catena di produzione del valore. Con effetti al momento imprevedibili.

Privatopia

Il vasto materiale di interviste (circa 35 ore di registrazioni) mette a disposizione numerosi altri spunti di riflessione. Fra i tanti merita di essere menzionato quello relativo all’abbattimento del confine tra tempo di lavoro e tempo di vita, e al mix forse non più distinguibile fra le due dimensioni.

Riferisce Ilaria: «A casa il mio posto di lavoro è in cucina. Preparo da mangiare e ho il pc aziendale sul tavolo da pranzo. Lo tolgo via da lì soltanto nel weekend».

Un tema su cui insiste Moreno: «Non si riesce più a distinguere una cosa dall’altra. Per dire, domenica scorsa sono rientrato dalle ferie. Ma rientrato per modo di dire, dato che non mi sono mai mosso da casa».

Su questo fronte la frase più significativa la pronuncia Gloria, 47 anni, settore auditing. Per lei l’esperienza dello Sw è nel complesso positiva perché le consente di vivere meglio la dimensione familiare.

Racconta di essersi ricavata uno stanza-studio per fare lo Sw. E quando le si chiede se riesca davvero a staccare al termine dell’orario d’ufficio, o se piuttosto le sembri di avere sempre il lavoro in mente o di ritrovarselo in ogni angolo di casa, risponde: «No, quando la giornata finisce chiudo il lavoro dentro quella stanza».

Prima della pandemia usava dire che il lavoro venisse chiuso fuori dalla porta di casa. Adesso bisogna sigillarlo a chiave in una stanza, e magari evitarla fino all’indomani. L’enclave domestica dello Sw. Siamo cambiati nel profondo e non ne abbiamo ancora piena coscienza.

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