Nei primi mesi del 2020, mentre la pandemia faceva una strage in Europa, un gruppo scelto di detective dava inizio a un’operazione di intelligence: nome in codice “Emma 95”, la guerra ai crypto narcos di tutto il pianeta. L’obiettivo era scovare criminali che erano rimasti a lungo fuori dai radar grazie a cellulari a circuito chiuso, con applicazioni per inviare messaggi criptati e impossibili da intercettare perché privi di collegamento alla rete telefonica.

Usavano apparecchi forniti da un paio di società che avevano creato modelli impermeabili persino ai virus informatici, con una clientela molto particolare: secondo le stime della polizia francese, il 90 per cento dell’utenza che aveva acquistato i telefoni, e pagava l’abbonamento per il servizio, rientrava nella categoria della criminalità organizzata.

Bucare il muro virtuale costruito da codici cifrati avrebbe significato sedersi al tavolo con i capi dei capi delle mafie che governavano i grandi traffici di droga e investivano milioni di euro in giro per il globo. Solo un virus informatico avrebbe permesso di captare in tempo reale ordini, strategie e business dei padrini, spesso in affari assieme.

Il lavoro dei detective si è concentrato soprattutto su Encrochat e Sky Ecc, aziende produttrici sia delle omonime applicazioni sia di telefoni sicuri. Sommando gli abbonati, cioè gli utenti che avevano usufruito dei servizi, si superavano le 200mila persone.

Telefoni speciali

Encrochat aveva sede in Europa. Sky Ecc, che faceva capo a Sky Global, si trovava in Canada. Sono state chiuse dopo le prime indagini e Jean-Francois Eap, amministratore delegato di Sky Global, è stato accusato il 12 marzo 2021 dal dipartimento di Stato americano di violazione della legge Rico contro la criminalità organizzata e la corruzione.

I modelli di telefono prodotti offrivano la disabilitazione di microfoni, del Gps e delle videocamere, nonché la cancellazione dei messaggi (criptati) inviati dopo soli 30 secondi. Inoltre, il dispositivo cancellava il messaggio non ricevuto dopo 48 ore dall’invio.

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Infiltrarsi

“Emma 95”, dunque, è destinata ad entrare nella storia della guerra alle mafie, in particolare a quelle italiane e ai loro alleati dei cartelli di narcos colombiani. La sigla indica un gruppo di investigazione congiunto tra detective francesi e olandesi, sotto il coordinamento di Europol, la polizia europea.

Gli esperti informatici hanno lavorato giorno e notte per mesi, usando codici e algoritmi per eludere le chiavi di protezione delle chat dei narcos. Sembrava impossibile, ma alla fine hanno realizzato l’impresa.

Una volta dentro è stato facile acquisire i dati degli ultimi due anni, fino al 9 marzo 2021. Dialoghi, immagini, documenti, persino bilanci paralleli di questa multinazionale della cocaina.

Tutto ciò che era stato inviato nelle chat ormai era nelle mani della polizia. E in questo gioco da guardie e ladri cyber, questi ultimi nulla sapevano dell’infiltrazione nelle loro stanze virtuali e cifrate. Perciò continuavano a sentirsi al sicuro e a scrivere.

Persino di fronte al sospetto di una possibile falla, i narcos non perdevano le staffe, convinti della sicurezza totale offerta dal servizio acquistato.

Uno di loro, uomo di ‘ndrangheta, sosteneva di essere in contatto con soggetti di «mezzo mondo», utilizzatori dell’applicazione in questione, nessuno dei quali aveva manifestato preoccupazione.

Per placare gli altri, inoltrava un messaggio ricevuto da uno dei gestori del server, il quale rassicurava tutti: «Sarebbe stato impossibile per la polizia avere accesso ai messaggi, non avendo Sky Ecc alcun registro». Si sbagliava. Ma nessuno dei padrini poteva immaginarlo.

Un oceano di informazioni

I poliziotti si sono immersi così in un oceano di informazioni, che in un primo momento non è stato facile ricondurre a persone fisiche, perché identificate solo da un pin, una sequenza alfanumerica. Anche questo scoglio è stato superato. I criminali delle migliaia di chat avevano un nome e cognome.

I detective si sono resi conto di trovarsi di fronte ai più famigerati capi mafia della nostra epoca. Tra questi spiccavano i broker della cocaina affiliati alle organizzazioni italiane, in particolare camorra e ‘ndrangheta.

Erano intermediari con base all’estero che avevano trattato, fino al loro arresto, centinaia di tonnellate di cocaina destinata al mercato europeo. Con un fatturato, dichiarato direttamente dai protagonisti nelle loro chat, fino a 900 milioni di euro l’anno.

Padrino Imperiale

AP

Gli investigatori olandesi e francesi hanno rintracciato nel flusso di comunicazioni pezzi grossi delle mafie italiane. Hanno trovato chat in cui parlavano Raffaele Imperiale e uomini originari della Calabria affiliati alla ‘ndrangheta.

Imperiale è stato considerato, fino al suo arresto, il leader del narcotraffico europeo, che vantava tra i propri canali diretti i cartelli della droga colombiani. Uomo di camorra, del clan Amato-Pagano di Napoli, ha vissuto una latitanza dorata a Dubai, negli Emirati Arabi.

Tutti sapevano dove viveva, eppure sono serviti cinque anni per acciuffarlo. E molte pressioni della nostra autorità su quelle emiratine, paese scelto da molti ricercati italiani di un certo peso.

Qualche mese prima dell’arresto aveva rilasciato un’intervista al quotidiano Il Mattino di Napoli: «Ho una condanna non definitiva a otto anni di reclusione. Non credo che questo sia coerente con l’etichetta di “più ricercato della Campania”. Se non mi sono costituito, le rispondo che probabilmente ho sbagliato e tuttora sbaglio a non farlo, ma ciò non toglie che io non sono mai fuggito dall’Italia. Io vivo all’estero da oramai oltre venti anni. Quando è stata emessa l’ordine di arresto in relazione al procedimento che mi riguarda, io vivevo a Dubai. E lì continuo a vivere».

Amici pericolosi

E a Dubai viveva nel lusso. Dalle chat criptate sono emerse le immagini inviate ad amici e sodali che lo ritraevano in lussuose abitazioni e in locali chic.

Nel 2016, durante una perquisizione del suo covo campano, gli investigatori avevano trovato due quadri originali di Van Gogh: La spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta, dipinto nel 1882, e Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen del 1885. Rubati nel 2002 da due ladri olandesi, Imperiale li aveva acquistati a un prezzo stracciato, 350mila euro. Dopo il ritrovamento i quadri erano stati restituiti al museo di Amsterdam.

Imperiale interessava alle polizie di mezzo mondo perché i suoi rapporti erano consolidati con vari gruppi criminali. Per esempio in Olanda, dove aveva stretto un’alleanza stabile con il padrino Ridouan Taghi, anche lui arrestato il 12 dicembre 2019 a Dubai.

Taghi era latitante come Imperiale e fino alla sua cattura era il più ricercato dei Paesi Bassi, accusato di essere a capo di un cartello della droga su scala internazionale e coinvolto in diversi omicidi, membro di quella che in Olanda è chiamata «mocro mafia», per indicare l’organizzazione composta da membri per lo più di origine magrebina, che in realtà affilia a prescindere dall’etnia.

Taghi è tra i principali sospettati dell’omicidio del giornalista investigativo Peter Rudolf de Vries, ucciso all’uscita degli studi tv di Rtl Boulevard, ad Amsterdam in pieno giorno.

Nelle chat criptate gli investigatori hanno trovato conferma dei rapporti tra Imperiale e la famiglia Taghi. «Ti spedirò con il mio trasporto dall’Italia all’Olanda sotto la mia responsabilità. Non devi pagare niente e non corri alcun rischio», scriveva Imperiale al figlio del capo della “mocro mafia”. Parlavano di denaro da inviare ed erano molti soldi: 5 milioni da spedire in due tranche per limitare i rischi.

Il narcos italiano gestiva la logistica tra i due paesi europei dal suo regno a Dubai. Sempre da lì teneva la contabilità sommaria e ne discuteva con il suo sottoposto: «Abbiamo 508 pacchi, sono 15 milioni, 15... 3 milioni a terra e sono 33 milioni, 2 una patata, 35 (milioni, ndr)».

Ricavi e crediti da recuperare attinenti a un solo carico di mezza tonnellata, ma ogni mese erano svariate le tonnellate di cocaina fatte entrare in Europa.

Camorra & ’ndrangheta Spa

Le chat segrete dei narcos “bucate” dalle polizie europee sono arrivate anche alle procure antimafia del nostro paese. I magistrati di Reggio Calabria, Napoli e Roma le hanno acquisite con richieste ufficiali inviate alle autorità comunitarie. E hanno avviato decine di inchieste, destinate a cambiare il corso della lotta a ‘ndrangheta e camorra.

La guardia di finanza di Reggio Calabria, diretta dal generale Maurizio Cintura, ha già portato a termine due indagini negli ultimi mesi, con oltre cento arresti e altrettanti indagati.

Per la prima volta i finanzieri coordinati dai pm antimafia reggini hanno documentato la partnership tra il narcos Imperiale e i trafficanti delle cosche calabresi, sparse un po’ ovunque nel mondo.

È un risultato straordinario, perché sono state analizzate migliaia di conversazioni decriptate.

Agli atti dell’indagine troviamo i dialoghi tra Imperiale e Bartolo Bruzzaniti, broker della coca pure lui ma per conto delle famiglie della ‘ndrangheta. Bruzzaniti interloquiva nelle chat con esponenti di primo piano delle cosche.

È dello stesso paese di Rocco Morabito, l’ultimo re dei narcos calabresi arrestato dopo una lunga latitanza in Sudamerica.

Bruzzaniti, per come si muove tra Europa e Africa, sembra averlo in qualche modo rimpiazzato, grazie anche all’intesa con Imperiale. Dalla Costa D’Avorio comunicava con Imperiale a Dubai. Dai rispettivi paesi gestivano affari immobiliari e illegali.

I due avevano organizzato numerose spedizioni, nelle chat discutevano di carichi come due manager di un’unica multinazionale. Entrambi non toccavano la merce, ne ordinavano i movimenti a distanza con destinazione Gioia Tauro, il porto calabrese in provincia di Reggio Calabria.

E così che è nato il progetto Turbo, dal nome del porto colombiano.

Uno scalo poco noto, di piccole dimensioni rispetto ai più utilizzati dalle compagnie di navigazione. Per questo centrale nella strategia imprenditoriale dei narcotrafficanti, colombiani e italiani.

Turbo si trova a 350 chilometri da Medellìn, la capitale del cartello più famigerato al mondo, reso celebre da Pablo Escobar. L’accordo tra Imperiale, Bruzzaniti e i colombiani prevedeva, come scrivono nelle chat segrete, «1.920 2 volte mese per 5 mesi».

Quattro tonnellate ogni trenta giorni, sufficienti a saturare il mercato europeo. Il broker calabrese spiegava al suo interlocutore che Turbo era «casa loro», «meglio di tutti gli altri porti… stiamo lì con chi gestisce tutto, merce, partenze ecc ecc, sono amici da 25 anni».

Amici con i narcos colombiani dal 1995, due anni dopo la morte di Escobar. Gli investigatori hanno intercettato grazie alle chat almeno una delle spedizioni e l’hanno seguita in diretta, fino alla destinazione finale. Giunta in Calabria nascosta in un container di banane, i finanzieri l’hanno lasciata uscire finché non è approdata nei magazzini dell’organizzazione. Solo allora hanno sequestrato le due tonnellate.

2 milioni in 30 giorni

Secondo fonti investigative che hanno lavorato alle chat, i broker del calibro di Imperiale e Bruzzaniti hanno pagato il narcotico alla fonte in Colombia 2mila euro al chilo. Lo rivendono in Europa a una cifra che oscilla tra i 28 e i 31mila euro.

Questo effetto moltiplicatore spiega anche la tranquillità con cui, nelle chat, hanno annunciato la perdita di un carico di svariati chili bloccati dalla finanza. Poca roba, rispetto ai ricavi ottenuti con altre spedizioni andate a buon fine.

Imperiale aveva il suo piano industriale: nel 2021 «dobbiamo fare 30 tonnellate... abbiamo fatto tanto per arrivare dove siamo arrivati, non possiamo arrenderci adesso per un po’ di stress».

Trentamila chili all’anno vuol dire immettere nel mercato europeo una merce che garantisce un fatturato di 930 milioni di euro.

I finanzieri di Reggio Calabria hanno sequestrato 4 tonnellate, intercettando spedizioni che erano state organizzate quando i detective erano già dentro il sistema crittografato. Dalle chat analizzate però risultano almeno altri 3mila chili giunti senza problemi e immessi nel mercato.

Una quantità pagata 6 milioni circa in Colombia, che rivenduta all’ingrosso tra Roma, Milano, Napoli e Torino ha fruttato 93 milioni di euro. Un tesoro più che sufficiente a sopportare rischi di impresa futuri.

Una massa di denaro non facile da movimentare per i comuni mortali. Routine per la santa alleanza ‘ndrangheta e camorra.

Nelle chat, agli atti di un’altra recente inchiesta dell’antimafia di Napoli, c’è un dato che spiega questa abilità nel gestire l’immensa ricchezza ottenuta dalla coca.

Un narcos della mafia calabrese ha organizzato una consegna di 2 milioni di euro in contanti agli uomini di Imperiale. In un solo mese. Con mezzo milione che si muove da una parte all’altra dell’Italia in un paio di giorni.

I flussi sono pari a quelli di una holding internazionale, che per questo non può fare a meno di un avere un proprio bilancio. Esiste un documento condiviso nelle chat, con la certezza della riservatezza offerta da Encrochat e Sky Ecc. I segreti più oscuri dei narcos erano finiti in mano agli investigatori.

La battaglia legale

Gli avvocati degli indagati nelle operazione scaturite dall’analisi della chat criptate stanno dando filo da torcere alle procure antimafia. Con alcuni ricorsi in Cassazione, relativi a un’inchiesta dalla procura di Roma, hanno ottenuto un giudizio positivo.

Con una sentenza del 7 settembre 2022, i giudici della suprema corte hanno dato ragione ai legali dell’indagato che lamentavano l’illegittimità dell’uso delle chat, in quanto i magistrati di Roma non avevano voluto rendere noto in che modo Europol aveva acquisito le conversazioni criptate.

La Cassazione, dunque, ha sottolineato l’imprescindibilità per l’esercizio del diritto di difesa della conoscenza delle modalità e dei procedimenti adottati dagli investigatori.

Invece, una pronuncia successiva su un pezzo grosso della malavita romana che usava il medesimo sistema di comunicazione, ha dato ragione ai pm della capitale.

E in un’altra sentenza di ottobre, di cui ancora non si conoscono le motivazioni nei dettagli, la corte ha sposato la tesi della procura di Reggio Calabria, che aveva usato le chat dei narcos in diverse inchieste.

Il dibattito è aperto, non solo in Italia. Persino in Europa l’associazione degli avvocati, riuniti sotto la sigla Fair Trial, accusano Europol di poca trasparenza nella gestione dell’operazione “Emma 95”: gli indagati hanno diritto di conoscere le procedure di acquisizione, è la denuncia dei legali.

Forse toccherebbe alla politica, nel più ampio contesto europeo e internazionale, mettere ordine con una norma che regoli l’ultima frontiera della guerra tecnologica alle mafie globali.

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