Il mare scorre veloce sotto lo scafo della barca a vela di Greenpeace che porta gli scienziati nel punto in cui cinque anni fa la nave Ivy ha scaricato 56 balle di immondizia del peso complessivo di 65 tonnellate. Si trovano ancora sul fondo fangoso. Siamo in Toscana, nel golfo di Follonica, nel Santuario dei Cetacei, un’area protetta per la tutela dei mammiferi marini. Nelle profondità di questo mare blu, la plastica originariamente destinata a un inceneritore in Bulgaria si sta lentamente disgregando. Solo ogni tanto riemerge e viene portata a riva dalle correnti.

Le balle, che contengono rifiuti secondari, cioè destinati alla produzione di calore perché non più riciclabili, erano partite da Piombino il 23 luglio 2015. In seguito a problemi di assetto della nave, il capitano della Ivy, Sinan Ozkaya, ha deciso di scaricarne una parte in mare, proprio nel Santuario dei Cetacei. Non c’è stata nessuna segnalazione, finché a Varna, in Bulgaria, dove i rifiuti dovevano essere bruciati, non si sono accorti della mancanza di 56 balle. Alla provincia di Grosseto la comunicazione è arrivata soltanto un mese più tardi.

A quel punto, anche qualche pescatore della zona ha raccolto nelle reti tracce della plastica abbandonata. Tecnicamente, ci sarebbero i margini per impugnare la fideiussione stipulata dalla Eco Valsabbia (che gestisce la spedizione insieme alla Ecoexport, con lo stesso proprietario), di proprietà di Sergio Gozza, del valore di 2,8 milioni di euro, emessa a favore del ministero dell’Ambiente. La provincia, che è l’autorità competente per la spedizione, la fa scadere e Gozza ottiene lo svincolo.

Oggi la vicenda è tornata d’attualità per via di un esposto, con l’accusa di danno erariale, alla Corte dei Conti da parte di Greenpeace nei confronti della regione Toscana, che però ha respinto le accuse. Nel corso degli anni anche la giustizia si è interessata alla vicenda, con una prima inchiesta archiviata dalla procura di Grosseto: negli ultimi giorni, però, la procura di Livorno ha aperto un nuovo fascicolo.

“Ogni oggetto di plastica in mare va incontro a processi degradativi che fanno sì che si riduca sempre di più in dimensioni e che modifichi anche le sue capacità di interagire con gli organismi marini”, dice Francesca Garaventa, ricercatrice del Cnr che studia l’impatto antropico e la sostenibilità nell’ambiente marino. Insieme a colleghi e attivisti partecipa alla terza edizione della campagna “Difendiamo il mare” di Greenpeace. La sua ricerca vuole capire come le sostanze combinate con la plastica possano danneggiare gli organismi marini. Si tratta di un secondo effetto dannoso, che si aggiunge a un effetto fisico, una sazietà apparente che li porta a non nutrirsi più.

Il mare non ha confini: la ricercatrice ha trovato microplastiche sia dove la mano dell’uomo è più prossima, come alle foci dei fiumi, sia dove l’impatto dovrebbe in teoria essere minore. Una delle tipologie di campionamento che Garaventa svolge durante il viaggio avviene attraverso il filtraggio che permette di raccogliere gli inquinanti presenti in superficie. La prima volta che cala lo strumento in acqua raccoglie un mozzicone di sigaretta. La seconda volta, un pezzo di plastica blu di grande quanto l’unghia di un pollice, e altri frammenti più piccoli, bianchi.

Sulla pericolosità delle balle di plastica, Garaventa non ha dubbi. “È ipotizzabile che si siano disgregate e abbiano rilasciato frammenti”. Le plastiche continuano a disperdersi nel mare come fanno dal 2015 a oggi: una vicenda che non ha colpevoli, come ha raccontato Greenpeace in un dettagliato dossier che ha ricostruito omissioni delle autorità, ritardi e procedure mai adottate che avrebbero potuto risolvere il problema.

Al disastro, insomma, si è aggiunta la pachidermica burocrazia italiana che non risolve la questione. La coda di questa storia è ancor più imbarazzante. Nel giugno 2019 il contrammiraglio Aurelio Caligiore è stato nominato, con decreto del presidente della Repubblica, commissario straordinario del governo per il recupero delle balle. Eppure sono ancora lì. Perché? “Perché è una pratica complicata - dice Caligiore - e perché poco dopo il mio arrivo è stato aperto un procedimento di incompatibilità da parte dell’Autorità garante della concorrenza e il mercato. Ora, il tutto sfugge alla mia razionalità, ma penso anche alla loro visto che si pronunceranno un mese e mezzo dopo la scadenza del mio mandato”. Nel frattempo, infatti, Caligiore è diventato ammiraglio, ma soprattutto a giugno di quest’anno è terminato il suo incarico, anche se il pronunciamento dell’Autorità arriverà solo alla fine di luglio. È una vicenda che sarebbe meglio non raccontare a Greta Thunberg, la ragazza che ha svegliato i grandi del mondo sulla questione ambientale. Quando è arrivata in Italia, per politici e autorità era una corsa al selfie. Il tempo di postarlo sui social e tutto è ritornato all’indifferenza di sempre.

Questo è solo il primo dei paradossi. Il secondo è ancora più grave, perché riguarda la possibilità di neutralizzare il rischio ambientale e rimuovere la montagna di plastica che si sbriciola sui fondali. “Il problema è che il mio provvedimento di nomina era monco, avevo solo poteri di indirizzo. Per avere pieni poteri di intervento, risolvere il problema evitando l'indizione di una gara ho chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale”, dice Caligiore. Lo stato di emergenza è una cornice giuridica che consente di evitare un bando di gara, decidere tramite ordinanze e permette di accelerare i tempi. Viene usato per frane, alluvioni, disastri naturali e crisi sanitarie, come il Covid-19, ma è stato anche adottato per emergenze durate decenni come quella dei rifiuti in Campania. In alcuni casi, la proclamazione dello stato di emergenza ha aumentato i costi, indebolito i controlli e aggravato il disastro, ma in questa vicenda sono stati in molti a richiederla: l’ex commissario Caligiore, il gabinetto del ministero dell'Ambiente, la regione Toscana.

“Abbiamo bruciato cinque mesi di tempo. Ho scritto alla protezione civile appena ho capito che era in corso lo sfaldamento delle balle con un rischio gigantesco per tutti. Non ho mai avuto risposta,” dice Caligiore, che a febbraio ha inviato la prima segnalazione. Poi ha scritto di nuovo a maggio, dopo una relazione dell’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, che definisce il recupero dei materiali un’urgenza “indifferibile”.

Indifferibile, ma nel frattempo sono passati altri mesi. Alla Protezione civile, in marzo, ha scritto anche la regione Toscana. A metà maggio il gabinetto del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha sollecitato la dichiarazione dello stato di emergenza: “È ormai improcrastinabile una scelta che vada in questa direzione (scelta, peraltro, già formulata da questa amministrazione a codesto Dipartimento nello scorso anno)... Si evidenzia come la questione rivesta carattere di assoluta urgenza”, si legge nel testo. La Protezione civile non ha mai risposto all’appello. L’unica presa di posizione emerge da uno scambio epistolare tra Angelo Borrelli e il senatore Gregorio De Falco: secondo il capo del dipartimento della Protezione civile, non ci sarebbero i presupposti per dichiarare lo stato d’emergenza. Non sarebbero infatti necessari, si legge nella risposta, provvedimenti per l’assistenza della popolazione civile. Una dichiarazione che lascia intendere che la questione ambientale c’entri poco o niente con la popolazione.

Di fronte a un’esplicita richiesta, il portavoce dichiara che “la dichiarazione dello stato d’emergenza è una prerogativa del Consiglio dei ministri”. Prerogativa che potrebbe essere finalmente raccolta nelle prossime ore con la dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio su proposta del ministro Costa. Sarebbe comunque una decisione che non comporterebbe la rimozione immediata della plastica, ma l’avvio di una nuova pratica. Sono passati cinque anni e le balle sono ancora lì, in attesa che qualcuno le rimuova dal Santuario dei Cetacei.

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