I «ruggenti anni 20» furono un decennio o poco meno, tra il 1921 e il ‘29, di prosperità nel mondo occidentale, alimentato da una forte crescita dei consumi, un boom nell'edilizia e la rapida espansione di beni di consumo, come automobili ed elettrodomestici. Questi fattori si materializzarono sull'onda della devastazione della prima guerra mondiale e, soprattutto, della «pandemia spagnola» (N1H1). Di conseguenza, diversi opinionisti, giornalisti, commentatori, e accademici hanno tracciato dei paralleli con quel periodo storico, suggerendo che la ripresa post-Covid potrebbe essere caratterizzata da un periodo di boom economico, come illustrato in una recente copertina della rivista britannica The Economist. Quanto è credibile una reiterazione degli «anni ruggenti» a un secolo di distanza e soprattutto, visto che quel periodo si concluse con la Grande Depressione ponendo le fondamenta per l’ascesa del nazifascismo e gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, quali le lezioni da trarre dal passato?

I parallelismi storici

«La storia non si ripete, ma spesso fa rima con sé stessa» diceva il grande scrittore Americano Mark Twain. Ci sono in effetti una serie di curiosi parallelismi tra le attuali condizioni globali e quelle degli «anni ruggenti», anche se forse per ragioni di fondo diverse. Le analogie includono la fine di una pandemia (N1H1 allora, Covid-19 oggi), la proliferazione di nuove tecnologie (elettricità allora, trasformazione digitale oggi), una rivoluzione dei trasporti (motore a combustione allora, veicoli elettrici oggi), la polarizzazione politica (ascesa di Comunismo e nazionalismo allora, anti-establishment ora), rivalità internazionali emergenti, de-globalizzazione, e un mercato azionario alle stelle.

Il grafico pubblicato in questa pagina mostra l’evoluzione del prodotto interno lordo reale pro capite in alcuni paesi occidentali nella prima metà del ‘900. Due elementi saltano subito all’occhio. In primo luogo, a prescindere da una tendenza comune a tutti i paesi occidentali, è evidente che gli anni 20 hanno «ruggito» in ciascun paese in maniera diversa. Per tutti la sfida era la transizione da un'economia di guerra centralizzata a una struttura economica aperta e appropriata ai tempi di pace. Il processo fu inevitabilmente complesso, e in alcuni casi portò a momenti di crisi economica. Per esempio, in Italia nel 1921 due tra i più grandi colossi industriali, Ansaldo e Ilva, andarono in bancarotta dopo la forte espansione sulla scia delle forniture belliche durante il primo conflitto mondiale. La tendenza agli “anni ruggenti” è quindi particolarmente visibile in Francia e nei Paesi Bassi, dopo la devastazione della Grande Guerra, ma meno in Italia, che visse una recessione, una crisi valutaria, e infine l’autarchia fascista. In Germania, il decennio fu caratterizzato dall'iperinflazione, principalmente a causa del denaro stampato per finanziare lo sforzo bellico e le successive riparazioni di guerra. Negli Stati Uniti, dove gli «anni ruggenti» sono più visibili, il Pil pro capite crebbe da circa 10.000 dollari a quasi 12.000 dollari appena prima del crollo di Wall Street nel 1929. Tuttavia, anche lì, la transizione da un'economia di guerra a una di pace fu tutt’altro che semplice. La mancanza di lavoro per i veterani di ritorno dal fronte portò a scioperi e forti tensioni sociali. Tra il 1919 e il 1920, le truppe federali furono impiegate in quasi 30 occasioni per sedare le proteste dei lavoratori e altri problemi di ordine pubblico. Questo è un periodo storico conosciuto come il «Red Scare», o la paura rossa, in riferimento alla diffusione di anarchismo e comunismo. Alla fine, l'aumento del credito al consumo alimentò il consumismo, anche per le automobili prodotte in serie come il celebre Modello T di Henry Ford. In parallelo, la diffusione dell'elettricità aprì la strada allo sviluppo e all’acquisto di una varietà di elettrodomestici, inclusa la lavatrice, spingendo la ripresa.

La seconda cosa da notare nel grafico è che, evidentemente, gli «anni ruggenti» non sono nemmeno paragonabili al «miracolo economico» che caratterizzò il secondo dopoguerra in Europa. Il primo uso del termine «roaring twenties» risale al 15 agosto 1923, e non si riferisce al boom sociale ed economico in generale, ma piuttosto allo sviluppo dell'industria del cinema, in particolare per le attrici donne. Sulle pagine del quotidiano del Nebraska Lincoln Journal Star leggiamo che «Durante la guerra e dopo la guerra fino al grande crollo cinematografico del 1920, Hollywood e Los Angeles erano letteralmente sommerse da aspiranti regine del cinema. Nuove compagnie spuntavano come funghi [...]. Ma i "ruggenti anni venti" sono passati». Questo uso nostalgico del termine già nel 1923 suggerisce che il boom di prosperità che attualmente associamo agli «anni ruggenti» era tutt'altro che evidente nei primi anni '20, anche per chi li stava vivendo in prima persona. Forse ciò che li ha resi particolarmente «ruggenti», almeno in termini di percezione del progresso a posteriori, è stato il confronto con il precedente decennio di crescita piuttosto debole: un tratto comune tra tutti i paesi occidentali. Le statistiche mostrano come nel 1921, il reddito reale pro capite degli Stati Uniti era pressappoco allo stesso livello del 1906. Questa performance economica tutt’altro che rosea costituisce un altro parallelo con i giorni nostri, dato che i paesi occidentali all'indomani della crisi finanziaria del 2008 sono stati afflitti dalla cosiddetta «stagnazione secolare».

Winston Churchill, noto per il suo sarcasmo, un tempo scherzò dicendo: «se si mettono due economisti in una stanza, si ottengono due idee divergenti, a meno che uno di essi non sia Lord Keynes, nel qual caso se ne ottengono tre». Un altro modo per dire che raramente c’è consenso all’interno della disciplina economica. Inevitabilmente, anche ai giorni nostri, gli economisti mondiali si dividono tra quelli che fanno previsioni più audaci sul decennio che verrà e altri che restano molto più freddi alla prospettiva di una reiterazione degli «anni ruggenti», soprattutto per quanto riguarda l’Europa.

Gli ottimisti

Una lunga serie di argomentazioni è stata usata per propugnare la convinzione che potremmo sperimentare una riedizione dei «ruggenti anni 20», spesso andando oltre la macroeconomia, includendo anche considerazioni di carattere aziendale o persino di natura psicologico-sociale.

In primo luogo, guardando al breve termine, alcuni puntano le proprie speranze sul fatto che la ripresa da crisi non finanziarie è generalmente più rapida di quella da crisi finanziarie come la recessione del 2008/09. In effetti, i primi segnali dai paesi in cui la pandemia è più sotto controllo, come l'Australia, mostrano una ripresa estremamente rapida della crescita e dell'occupazione. In gergo, la cosiddetta ripresa a «V». Per l'Europa a questo fattore si aggiunge il fatto che il Recovery Fund dovrebbe sostenere gli investimenti. Un po' per scelta politica, un po’ per condizioni fortuite, il Recovery Fund potrebbe finire per essere perfettamente sincronizzato con la ripresa ciclica ed entrare in azione proprio quando la campagna di vaccinazione raggiungerà massa critica.

In secondo luogo, e collegato al punto precedente, i ruggenti ottimisti della nostra epoca notano che la risposta europea alla crisi del Covid-19 è stata rapida e incisiva. A un anno dalla crisi, l'economia si è dimostrata resistente e adattabile a operare in un ambiente pandemico, mentre le esportazioni manifatturiere sono sostenute da una forte ripresa nascente in Asia, dove il Covid-19 è maggiormente sotto controllo. Anche se i fallimenti aziendali potrebbero subire un aumento una volta revocate le misure straordinarie di sostegno, questi dovrebbero essere contenuti da una ripresa ciclica una volta rimosse le restrizioni (il cosiddetto «mini boom post Covid»). A questo proposito, l'estate del 2020, quando l'attività economica è effettivamente tornata ai livelli pre-pandemici e ne è seguita una forte espansione del Pil, lascia spazio all'ottimismo. Evidentemente, il boom ciclico potrebbe essere sostenuto dai cosiddetti «risparmi forzati», cioè soldi messi da parte anche grazie alle misure di sostegno al reddito adottate da molti governi europei e non spesi a causa delle chiusure. Secondo alcune stime, questi risparmi in eccesso potrebbero costituire uno stimolo dal 3 al 6 per cento del Pil in tutta Europa, fungendo da combustibile per il decollo economico.

A ulteriore sostegno delle prospettive di una ripresa a breve termine, alcuni scienziati sociali hanno sottolineato i fattori psicologici che dominano all'indomani di uno shock come una pandemia. Nel suo ultimo libro Apollo's Arrow (Little Brown Spark), il medico e sociologo Nikolas Christakis della Yale University sostiene che la fase post-pandemica, dalla Peste Nera in giù, è tipicamente caratterizzata da una forza psicologica positiva che stimola le interazioni sociali, la creatività, la sperimentazione, l'assunzione di rischi e la fioritura delle arti. E infatti gli anni '20 furono un periodo di liberazione in cui le donne ottennero il diritto di voto in diversi paesi, dalla Germania al Regno Unito e agli Stati Uniti, accorciarono le gonne, presero a fumare sigarette, guidare, e bere in pubblico. In America nello stesso periodo poeti, autori e musicisti jazz di colore trovarono un vasto pubblico in quello che è comunemente noto come l’«Harlem Renaissance». Di conseguenza, sostiene Christakis, possiamo aspettarci di osservare qualcosa di simile dopo il Covid-19 quando le persone non vedranno l’ora di ristabilire connessioni sociali.

Sulla base di tutto ciò, gli ottimisti vedono ragioni per aspettarsi che, come minimo, l'Europa tornerà rapidamente ai livelli di produzione e consumo pre-crisi grazie a una fase espansiva ciclica non appena i vaccini permetteranno una completa riapertura in sicurezza dell'economia.

Da un punto di vista più strutturale a lungo termine, la conversazione sui «ruggenti anni '20» si è legata alla diatriba di lunga data tra i cosiddetti tecno-entusiasti, come Erik Brynjolfsson del Mit di Boston, e i tecno-scettici, come Robert Gordon di Northwestern University. Brynjolfsson sostiene da anni che la rivoluzione digitale deve ancora esprimere tutto il suo potenziale in termini di aumento del Pil e della produttività. Al contrario, Bob Gordon ha scritto nel suo celebre libro The Rise and Fall of American Growth (Princeton University Press) che la crescita della produttività è ormai prossima al capolinea perché le recenti innovazioni, tra cui l’intelligenza artificiale o i computer, semplicemente non possono eguagliare le grandi invenzioni del passato. Tra quest’ultime, quelle che hanno caratterizzato gli anni '20, come l'elettrificazione e il motore a combustione interna.

Spezzando una lancia a favore di Brynjolfsson, la pandemia del Covid-19, riducendo gravemente i contatti interpersonali e costringendo le aziende a digitalizzarsi, potrebbe aver accelerato l'innovazione e la diffusione tecnologica. Sulla base di una serie di sondaggi tra managers, il World Economic Forum quest'anno ha mostrato che più dell'80 per cento dei datori di lavoro intende accelerare i piani per digitalizzare i propri processi produttivi e fornire maggiori opportunità di lavoro a distanza, mentre il 50 per cento prevede di accelerare l'automazione della produzione. Un simile sondaggio globale di alti dirigenti condotto dall’azienda di consulenza McKinsey & Co. ha rivelato che molte aziende sono «incredibilmente» sette anni avanti rispetto a dove avevano pianificato di essere in termini di digitalizzazione. Infine, le aziende che hanno fatto investimenti digitali al culmine della crisi probabilmente vorranno raccoglierne i benefici anche quando l'epidemia sarà finita, rendendo la transizione al canale digitale permanente. Questo potrebbe implicare un risparmio prolungato e importante per aziende e lavoratori: per i primi, in termini di riduzione degli spazi per uffici (e quindi dei ad essi costi connessi) e viaggi d'affari; per i secondi, in termini di meno tempo sprecato a pendolare tra casa e ufficio, portando ad un aumento strutturale nelle statistiche di produttività. Recentemente, anche il tecno-pessimista Gordon si è visto costretto ad ammettere che la digitalizzazione indotta dalla pandemia porterà molto probabilmente a un'impennata della produttività nei prossimi anni.

I pessimisti

Non sorprende che molti esponenti della «scienza triste», come è nota l’economia in gergo, abbiano una serie di ragioni per essere più cauti sulle prospettive future.

In primo luogo, nonostante gli interventi atti a contenere gli effetti della crisi a livello nazionale ed europeo, alcuni danni all'economia saranno probabilmente inevitabili. È probabile che le misure di contenimento del virus abbiano avuto degli effetti negativi su individui e lavoratori attraverso vari canali. Ci sono per esempio ampie prove empiriche che i giovani che entrano nel mercato del lavoro durante una recessione subiscono salari più bassi che si protraggono per oltre un decennio. Allo stesso modo, anche se su un orizzonte temporale più lungo, la didattica a distanza potrebbe aver influito negativamente sulla qualità complessiva della formazione del capitale umano, e in particolare per studenti provenienti da ambienti svantaggiati. Effetti di lungo periodo potrebbero anche riguardare i lavoratori, molti dei quali hanno probabilmente perso alcune competenze mentre erano inattivi durante le chiusure. Secondo una ricerca della Banca Mondiale, i paesi colpiti da epidemie hanno sperimentato un marcato declino della produttività del lavoro dell'8 per cento dopo tre anni. Nello stesso modo, una ricerca del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) basata su 133 paesi tra il 2001 e il 2018 mostra come le epidemie tendano a ridurre la produzione e ad aumentare le disuguaglianze, alimentando tensioni sociali, che abbassano ulteriormente la produzione e peggiorano la disuguaglianza. A ben vedere, i «ruggenti anni 20» negli Stati Uniti confermano questa ipotesi, caratterizzati come furono da un divario crescente tra città e campagna, e una disuguaglianza sconcertante tra ricchi e poveri ben illustrata dal romanzo senza tempo di F. Scott Fitzgerald Il Grande Gatsby, gettando così le fondamenta per la Grande Depressione.

Inoltre, come notato dall’economista Barry Eichengreen, potrebbe benissimo essere che lo shock pandemico porti a un aumento permanente dei tassi di risparmio, poiché le persone saranno più caute dopo aver sperimentato difficoltà inaspettate con la pandemia. Se così fosse, l'«eccesso di risparmio» non sarebbe poi così in eccesso ma piuttosto un risparmio precauzionale, riducendo la credibilità di previsioni ottimistiche basate su un boom dei consumi. A ben vedere quindi l’aumento dei risparmi andrebbe a peggiorare i fattori che stanno alla base della «stagnazione secolare», invece che segnarne la fine.

In secondo luogo, il fatto che non ci sia ancora stata un'ondata di fallimenti aziendali potrebbe essere semplicemente dovuto agli ingenti aiuti di stato messi in campo per contrastare la crisi di liquidità dovuta al Covid-19, assieme alle moratorie sui prestiti. La maggior parte delle imprese, se non tutte, sono state sostenute in un modo o nell’altro. Tuttavia, quando gli aiuti statali giungeranno inevitabilmente al termine, e la tempesta economica scatenata dal Covid si sarà acquietata, alcune aziende, ma persino interi settori, potrebbero essere scomparsi per sempre. L’esempio classico è quello della trasformazione strutturale del commercio al dettaglio, che si è spostato verso l'e-commerce, o dei viaggi d'affari, sostituiti dalle teleconferenze. Entrambi difficilmente torneranno ai fasti passati dopo la pandemia. Questa trasformazione strutturale deve essere letta nel contesto di più ampi cambiamenti nel sistema economico, non ultima l'accelerazione politica verso le tecnologie a basse emissioni di gas serra, come previsto dal Green Deal europeo. Tutto ciò accresce ulteriormente la sfida legata all'innovazione delle pratiche commerciali e non è ancora chiaro che tipo di impatto tutto ciò avrà sulla crescita del Pil e della produttività. Quel che è peggio, le politiche economiche che erano appropriate alla fase iniziale della Covid-19 potrebbero rallentare o impedire questa trasformazione strutturale, mantenendo in vita settori ormai compromessi per sempre, generando quella che in (macabro) gergo economico viene chiamata «zombificazione". Sulla base di questo rischio, dovuto a una minore resilienza o capacità di rapida trasformazione, il Fmi nel suo ultimo aggiornamento sul quadro economico mondiale (Weo) si aspetta che l'UE e l'Eurozona tornino ai livelli di Pil pre-crisi molto più tardi di altre economie avanzate, come gli Usa o il Giappone.

In terzo luogo, c'è stato finora un consenso politico sull'uso della politica fiscale per sostenere l'economia. Tuttavia, lo strumento fiscale potrebbe essere limitato in futuro a seconda di una serie di fattori tra cui la futura evoluzione dell'inflazione e la reazione della Banca Centrale Europea (Bce) quando i prezzi inizieranno a salire, il mantenimento della fiducia sui mercati finanziari e la futura evoluzione delle regole fiscali UE. La politica fiscale potrebbe presto quindi diventare un freno alla crescita, o comunque non essere nella condizione di essere di sostegno nel prossimo futuro, se si dovesse verificare un qualsiasi nuovo shock macroeconomico.

In quarto luogo, in una recente analisi condotta alla Harvard University con lo statistico Michele Peruzzi, ho mostrato che le accelerazioni della crescita, cioè quelle caratterizzate da una espansione strutturale e sostenuta del Pil, restano eventi piuttosto rari nelle economie avanzate, e sono tipicamente associate a riforme strutturali di ampia portata. Questo argomento si ricollega al punto di vista dell’economista tedesco Daniel Gros, secondo cui l'effetto del Fondo di Ripresa e Resilienza dell'UE dipenderà principalmente, se non completamente, dal tipo di riforme strutturali di ampia portata che quest’ultimo riuscirà a facilitare. Un elemento che rimane tutto da vedere nella pratica.

Infine, in una prospettiva più globale, le economie avanzate hanno acquistato la maggior parte delle scorte di vaccini disponibili per il 2021, nella speranza di poter salvare la vita ai propri concittadini e riaprire rapidamente l’economia. I paesi ad alto reddito, che rappresentano il 16 per cento della popolazione globale, si sono assicurate almeno il 70 per cento delle dosi di vaccino Covid-19 disponibili nel 2021. Tuttavia, la natura globale delle catene del valore suggerisce che la produzione e il commercio estero rimarranno azzoppati finché anche i paesi in via di sviluppo non avranno la pandemia sotto controllo. In linea con questa argomentazione, in una recente analisi un gruppo di economisti turchi guidati da Cem Çakmaklı ha mostrato che i danni economici legati al Covid-19 continueranno ad attanagliare i paesi ricchi anche nel 2021, e questo anche assumendo una rapida e completa vaccinazione della popolazione occidentale. Al di là del commercio e della produzione, la continua proliferazione del virus in altri paesi implica un rischio costante di sviluppo e diffusione globale di varianti resistenti al vaccino. A gennaio, la prestigiosa rivista scientifica Nature ha chiesto a più di 100 immunologi, ricercatori di malattie infettive e virologi che lavorano sulla SARS-CoV-2 se quest’ultima potesse essere eradicata completamente. Quasi il 90 per cento degli intervistati ha dichiarato di ritenere che il coronavirus diventerà endemico, il che significa che continuerà a circolare in sacche della popolazione globale per gli anni a venire. In altre parole, il Covid-19 potrebbe avere un impatto protratto negli anni che non sarà risolto da una campagna vaccinale rapida ed efficiente nei prossimi mesi, ostacolando le prospettive di un nuovo decennio «ruggente».

Un parallelismo tutt’altro che scontato

Dopo aver esaminato entrambi gli argomenti a favore e contro, possiamo concludere che una replica degli «anni ruggenti» a cento anni di distanza sembra tutt'altro che scontata per l'Europa nel suo complesso. Tuttavia, ciò che non si può escludere è che un boom economico possa materializzarsi per alcuni singoli paesi all'interno dell'Unione europea, magari sulla scia di un buon Programma nazionale di ripresa e resilienza, o di un modello economico basato sulle esportazioni e ancorato alla ripresa globale. Abbiamo visto infatti come le uscite dai momenti di crisi possano aprire la strada a una ripresa differenziata, anche all'interno di un contesto generale di crescita favorevole, come è successo nei primi anni '20. Inoltre, grandi cambiamenti come la transizione a un nuovo modello di crescita basato sull'economia digitale o verde, e le sfide legate all'invecchiamento della popolazione, potrebbero peggiorare ulteriormente il problema della crescita eterogenea all'interno dell'Unione.

Percorsi di ripresa diversi, o una riedizione localizzata dei "ruggenti anni '20", avrebbero ripercussioni in termini di divergenze crescenti nell'Ue su una serie di indicatori. Sul fronte fiscale, alcuni paesi potrebbero essere in una posizione migliore per riassorbire rapidamente gli alti livelli di debito pubblico sostenuti per fare fronte al Covid-19. Sul fronte della politica monetaria, percorsi economici divergenti potrebbero ancora una volta creare un problema noto come «one size fits none» per la Bce, e cioè di una politica monetaria orientata alla situazione media dell’eurozona, ma troppo espansiva per le economie forti, e troppo restrittiva per quelle in difficoltà. Sul fronte della migrazione interna, una ripresa non uniforme potrebbe innescare ancora una volta una grande emigrazione involontaria di giovani, come sperimentato dopo la crisi dell'Eurozona, con i paesi vulnerabili che perdevano permanentemente il proprio prezioso capitale umano, attratto da salari più alti nel nord Europa. Evidentemente tutto ciò avrebbe ripercussioni sui rapporti tra governi europei e quindi sulla prosecuzione dell’integrazione politica dell'UE. In questo contesto, i governi nazionali dovrebbero evitare eccessivi compiacimenti ispirati dai paralleli con gli «anni ruggenti». Il livello di ambizione e la qualità della risposta di politica pubblica alla crisi, compreso il raziocinio con cui verranno spesi i soldi del Recovery Fund, affiancati da riforme strutturali di vasta portata, è in larga parte ciò che definirà le prospettive economiche negli anni ‘20 del ventunesimo secolo in Europa.

Le opinioni qui espresse sono quelle dell'autore e non rappresentano necessariamente quelle della Commissione Europea. Articolo pubblicato precedentemente su Vox.eu

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