Il nostro paese è terzo al mondo per incidenza di decessi da caldo, ma il governo si limita a linee guida e provvedimenti tampone. Non è così in altri paesi europei
Due uomini sono morti in Sardegna per collasso termico. Avevano 75 e 60 anni, e si trovavano in spiaggia, a Budoni e San Teodoro, con temperature oltre i 40 gradi. A Bologna, l’operaio 47enne Brahim Ait El Hajjam è deceduto due giorni fa durante un turno in cantiere, e una donna cardiopatica è morta a Bagheria, in provincia di Palermo.
In totale, quattro morti in 48 ore e una catena di episodi che si inserisce in un contesto di allerta rossa attiva in 21 città italiane. I pronto soccorso segnalano un aumento del 20 per cento degli accessi per disidratazione e scompensi termici.
Secondo i dati più recenti, il caldo estremo provoca in Italia oltre 5.200 infortuni all’anno, di cui circa 4mila direttamente legati alle alte temperature.
Il fenomeno colpisce in particolare lavoratori dell’edilizia, dell’agricoltura e della logistica, dove l’esposizione al sole è prolungata e spesso senza tutele concrete. Nelle Marche, nel primo trimestre 2025, gli infortuni nei cantieri sono aumentati del 9,4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
I costi sociali sono circa 50 milioni di euro annui, tra spese sanitarie, assicurative e produttività persa. Uno studio INAIL-CNR ha calcolato che ogni grado oltre i 20°C provoca una perdita media del 6,5 per cento di produttività nei lavori a elevato sforzo fisico, con picchi dell’80 in condizioni estreme.
Il governo ha trovato a metterci una pezza con il nuovo “Protocollo nazionale caldo” che prevede orari flessibili, sorveglianza sanitaria, Cassa integrazione (CIGO) e suggerimenti su abbigliamento tecnico e idratazione.
No stop, no sanzioni
Ma non esistono obblighi vincolanti per le aziende: il protocollo è volontario, e la CIGO – lo strumento cardine della risposta italiana – si attiva solo a 35 gradi percepiti. La soglia, tra le più alte d’Europa, non impone l’interruzione delle attività, ma permette alle imprese di chiedere un ammortizzatore sociale. Nessun limite legale alla temperatura sul luogo di lavoro, nessuna regola uniforme tra regioni, soprattutto nessuna sanzione.
In Europa, venti paesi su 38 dispongono di sistemi integrati di monitoraggio del caldo con allerte sanitarie obbligatorie. La Spagna ha attivato 182 zone meteo-climatiche con avvisi giornalieri e una legislazione strutturale: il Real Decreto 486/1997 e il recente RDL 4/2023 fissano limiti di temperatura nei luoghi di lavoro e vietano determinate mansioni all’aperto durante le allerte rosse.
Nei lavori sedentari il massimo consentito è 27°C, mentre nei lavori fisici il limite varia tra 14°C e 25°C. L’Italia consente il lavoro all’aperto fino a 35°C percepiti.
La Francia, pur senza una legge nazionale con limiti rigidi, impone obblighi concreti. L’INRS stabilisce soglie di rischio a 28-30°C e considera “pericolosa” l’attività sopra i 33°C. È obbligatoria la fornitura di acqua, la ventilazione, le pause.
Da luglio 2025, un nuovo decreto impone una rivalutazione quotidiana del rischio e l’obbligo per i datori di lavoro di adottare piani preventivi durante le ondate di calore.
La Germania applica la regola ASR A3.5: oltre i 26°C sono raccomandate misure di mitigazione; oltre i 30°C diventano obbligatorie. A 35°C, un ambiente chiuso è considerato “non idoneo” al lavoro se non si adottano protezioni straordinarie. In Italia, 35°C è il punto in cui si può richiedere la cassa integrazione.
Il servizio europeo Copernicus prevede per l’estate 2025 un’anomalia di +1°/3°C rispetto alla media 1991–2020, con picchi oltre i 45°C in alcune regioni del Sud Europa. In Italia, la vulnerabilità climatica è aumentata dell’11 per cento tra il 2000 e il 2020, il tasso di mortalità legato al caldo è di 655 decessi ogni 10 milioni di abitanti: quasi il triplo della media globale. Il nostro paese è terzo al mondo per incidenza di decessi da caldo, dopo Grecia e Malta.
A livello europeo non esiste una direttiva vincolante sulle temperature massime nei luoghi di lavoro, ma la Confederazione europea dei sindacati ha chiesto l’introduzione di una norma comune: soglie definite, valutazioni obbligatorie del rischio, formazione dei lavoratori e monitoraggio sanitario. La Commissione ha avviato una consultazione; ad oggi la protezione dal caldo resta competenza degli stati membri.
Abbiamo ogni anno oltre 4mila infortuni da caldo e centinaia di decessi correlabili alle alte temperature. Il quadro normativo attuale si limita a linee guida, ordinanze regionali e provvedimenti tampone.
A differenza dei principali partner europei, il nostro paese non ha definito soglie di rischio legali né obblighi vincolanti. Il 2 luglio ha riportato in primo piano il costo umano dell’inazione. La crisi climatica non è più una previsione. È cronaca.
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