La rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale con 759 voti segna la sconfitta di tutti i leader che in questa settimana si sono impegnati per (non) scegliere il capo dello stato. Nessuno mette in dubbio le qualità del capo dello stato uscente, ed entrante, che ha fatto di tutto per rispettare la Costituzione di cui è garante anche nel gestire la fine del primo mandato: di fronte ai ripetuti inviti a proseguire, Mattarella ha perfino affittato casa e iniziato il trasloco per fugare il dubbio che il presidente della Repubblica fosse un politico eletto come gli altri, mosso nelle sue azioni prima di tutto dal timore di perdere la carica ricoperta.

Però anche Mattarella esce sconfitto dai negoziati di questi giorni: quando, nel febbraio del 2021, aveva indicato Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, aveva fatto una scelta netta e discussa. Niente elezioni, perché c’erano la pandemia e i fondi europei da gestire, meglio un «governo di alto profilo» che evitasse di lasciare il paese senza guida per mesi.

Oggi Mattarella si trova ostaggio di quella decisione, vittima della logica della necessità che lo aveva spinto a guidare il parlamento da Giuseppe Conte a Draghi: la costruzione dall’alto della maggioranza attuale ha generato poi le evoluzioni successive, la tensione intorno al ruolo di Draghi, adatto al Quirinale ma considerato da troppi inamovibile da palazzo Chigi, e l’impossibilità di trovare un nome per il Colle senza avvicinare le elezioni anticipate.

Il paradosso è che ora Mattarella si trova a porre come condizione per accettare il bis che questo non destabilizzi il governo. Questa stabilità forzata produrrà contraccolpi, così come la convivenza imposta nel 2011 dall’allora presidente Giorgio Napolitano a destra e sinistra intorno al governo Monti ha favorito l’ascesa del Movimento 5 stelle e della Lega di Matteo Salvini.

Draghi a metà

Anche Draghi esce dimezzato: considerato indispensabile da tutti, certo, ma anche scartato per il Quirinale, trattato più come una polizza per evitare elezioni anticipate e perdita prematura di stipendi e pensioni parlamentari che come una risorsa della Repubblica da impiegare nel modo migliore. Ora Draghi si trova in una condizione che gli è familiare dai tempi delle banche centrali: ha un mandato assai poco politico e ben perimetrato, un anno, e nessuna prospettiva a breve di ottenere altri incarichi. Può decidere di fare tutte le riforme che ha rinviato nel 2021, sfruttando la paralisi del sistema dei partiti e la fragilità dei loro leader terrorizzati dalle elezioni, oppure può inseguire la benevolenza di quei partiti che ora lo hanno temuto e scartato, nella speranza di chissà quali remote prospettive future (guida della Commissione europea nel 2024, successione, prima o poi, a Mattarella…).

La fine dei leader

Poi ci sono loro, i partiti, che hanno rivendicato la centralità della politica per poi dimostrare di non sapere che farsene. Il centrodestra è collassato: prima l’imbarazzante campagna a favore di Silvio Berlusconi, oltre che impresentabile anche inutilizzabile, perché con salute precaria. Poi le tensioni tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini che hanno replicato il risultato delle elezioni amministrative di ottobre: candidati inadeguati e una inequivocabile sconfitta. Forza Italia è un ricordo, la Lega è prigioniera di un leader poco lucido, Fratelli d’Italia ha troppi voti per non cercare la leadership della destra ma una classe dirigente insufficiente per riuscirci. Anche il centrosinistra non esiste più. Il segretario del Pd Enrico Letta può vantare una sostanziale vittoria, perché ha fermato i progetti della destra e ha confezionato la conferma di Mattarella come una soluzione prodotta quasi spontaneamente dalla «saggezza del parlamento» (dove a votare erano i suoi parlamentari). Ma che vittoria è?

Il Pd non ha avanzato un solo nome in tutto il negoziato, non ha appoggiato la candidatura di Draghi, non ha provato Giuliano Amato, da ieri presidente della Corte costituzionale, non ha costruito nessun profilo adatto alla situazione. Alla fine, si è compattato intorno a un presidente della Repubblica scelto con un guizzo dall’ormai odiato Matteo Renzi ben sette anni fa. Il Pd non ha mai superato davvero il renzismo, ma neppure ha mai prodotto veramente nulla, visto che i suoi due ultimi presidenti sono esponenti delle culture politiche che nel Pd non si sono mai davvero amalgamate, quella comunista (Napolitano) e quella democristiana (Mattarella).

Addio ai Cinque stelle

Sui Cinque stelle bisognerebbe stendere un pietoso velo di silenzio per l’imbarazzante prestazione: il presunto leader, Giuseppe Conte, ha detto tutto e il suo contrario, si è trovato con dirigenti del partito che offrivano in giro pacchetti di voti e con il capo-ombra del Movimento che costruiva la candidatura di Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti. Candidatura che Conte ha avallato con un misto di ingenuità e sicumera, anche se Belloni è oggi alla guida dei servizi per riparare ai danni della gestione Conte.

La crisi dei Cinque stelle non è soltanto un problema interno, ma di tutto il centrosinistra: il “campo largo” che Letta vede ovunque non è un progetto politico, ma un’alleanza tattica parlamentare che finirà con la legislatura. Pure Renzi, sempre iperattivo e in bilico tra quel “campo largo” e il centrodestra, è ormai ininfluente: ha cercato di costruire la candidatura di Pier Ferdinando Casini e non ha combinato nulla.

Se i partiti avessero votato, tutti insieme, Mattarella bis al primo scrutinio sarebbe stata la conferma di un presidente considerato indispensabile. Richiamarlo all’ottavo voto per mancanza di alternative e timore delle elezioni è una certificazione di impotenza e l’apertura di una crisi di sistema.

 

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