Una suggestione. Nient’altro che una suggestione che vi voglio raccontare. In quest’ultimo periodo mi sto occupando del regno Lombardo Veneto. Gli occhi sono sulle pagine di libri che descrivono questa stagione della nostra storia; poi guardo i giornali e leggo i nomi dei ministri del governo Draghi. Confesso che, smarrito, mi sono chiesto: ma siamo tornati (o siamo ancora) al Lombardo Veneto? I ministri lombardo veneti sono un numero enorme, 12 su 23, oltre il 50 per cento, come mai era accaduto nella storia dell’Italia repubblicana.

Una suggestione. Nient’altro che una suggestione. Ma poi ricordo che pochi giorni prima Dario Di Vico in un lungo articolo sul Corriere della Sera ha parlato di nord dicendo che il richiamo a quest’area del paese non è una «sorta di ideologia. Contiene invece un’attenta osservazione dei movimenti reali dell’economia» e dei «processi di integrazione» con l’Europa. In tutte le righe, tante!, non c’è neanche in un inciso la parola Mezzogiorno.

Una suggestione. Nient’altro che una suggestione. Ma poi realizzo che tra i ministri non c’è Peppe Provenzano, un giovane siciliano bravo, preparato, esperto della materia, che sa parlare delle cose che conosce, che aveva impostato, e in parte avviato a realizzazione, un buon lavoro per il Mezzogiorno di cui era il ministro (assieme alla coesione sociale, non a caso).

Allora bisogna tornare alla dura realtà e porsi qualche domanda, a partire dalla comprensione delle vere ragioni, politiche ed economiche, per cui è stato sfiduciato Conte, un pugliese di Volturara Appula (come con una punta di malizia veniva ricordato quando cominciava a essere in declino). Eppure, i fondi del Next Generation Eu li aveva strappati lui a Bruxelles. Dunque andava bene quando portava i soldi, ma quando si dovevano spendere era meglio passassero ad altre mani. La risposta alla domanda credo che sia tanto semplice da non richiedere spiegazioni. È meglio soffermarsi su un timore che ho, e cioè che il nord, che oggi ha il 75 per cento dei ministri, rischi di fare gli stessi errori del recente passato quando inalberò la bandiera di un nord abbandonato dalle scelte di governi romanocentrici. Anni fa Romano Prodi disse a Marco Damilano in una lunga intervista pubblicata da Laterza che «liberarsi del peso del sud per riprendere la corsa verso l’Europa era un argomento che prendeva piede all’inizio degli anni Novanta anche in ambienti che ero abituato a frequentare e nei dibattiti politici».

Tirava una brutta aria per i meridionali in quella stagione. Ricordiamo tutti cosa è successo dal 1994 in poi, nei lunghi anni dei governi di Berlusconi con la Lega nord Padania quando la religione prevalente era la virtù del libero mercato accompagnato dall’esaltazione della figura dell’imprenditore; in una parola: il liberismo trionfante e apparentemente inarrestabile.

Da Berlusconi a Salvini

Da allora a oggi siamo arrivati al Declino Italia come ha scritto in un recente libro Andrea Capussela, ed è bene ricordare che sul finire del 2011 siamo giunti a un passo dal baratro. «Il lungo ciclo del berlusconismo e dell’infinita transizione italiana si sono consumati nel silenzio assordante della borghesia», scrivevano Giuseppe De Rita e Antonio Galdo nel loro libro L’eclissi della borghesia. Confindustria e associazioni dei commercianti erano schierati con l’imprenditore delle televisioni.

Mentre accadeva tutto ciò il nord perdeva pezzi pregiati della propria industria e della propria identità. La Fiat che, lo ricordo a chi lo avesse dimenticato, si chiamava non a caso Fabbrica Italiana Automobili Torino, ha deciso si spostare sede fiscale e interessi economici fuori dall’Italia con la benedizione degli industriali e del governo di Matteo Renzi il quale, proprio in questa fase di passaggio, riceve Marchionne a palazzo Chigi in pompa magna come se fosse un eroe nazionalpopolare mentre era solo un bravo manager che, dal suo punto di vista, difendeva gli interessi della sua azienda e non più quelli dell’Italia, come si diceva un tempo quando la Fiat aveva bisogno dei soldi e del sostegno dello stato; e con questi soldi è diventata grande. Conclusione: l’Italia non ha più una sua casa automobilistica. Quella che aveva, ed era un vanto per tutti gli italiani e non solo per i torinesi, è diventata oramai una multinazionale. L’egoismo e le scelte sbagliate del nord hanno dato questi frutti avvelenati accompagnati da uno dei tanti paradossi che ogni tanto, perfidamente, ci regala la storia.

I frutti peggiori

Il nord ha accolto i prodotti peggiori del sud: le mafie; tutte, nessuna esclusa. Imprenditori e colletti bianchi hanno spalancato le porte a questi mafiosi, anzi – in questo scimmiottando i colleghi meridionali – sono andati a cercarli persino per chiedere voti, pensando di risolvere i loro problemi e non comprendendo che così facendo sarebbero finiti alla rovina. Qualcosa di simile sta accadendo in questi mesi della pandemia, con l’espansione dell’usura mafiosa che porterà nel baratro imprese industriali e commerciali molte delle quali, se non si interviene subito, passeranno la titolarità ai mafiosi. Nord e sud sono più simili di quanto si pensi, almeno in alcuni comportamenti. Ad esempio nella corruzione che è diventata endemica un po’ dappertutto, al nord, al sud e al centro. La domanda da porsi è: siamo di fronte a una nuova fase caratterizzata dall’egoismo del nord, da ceti sociali accecati dalla loro potenza economica e dall’ansia di realizzare sempre più profitti e di incassare dividendi sempre più sbalorditivi? Spero di no, temo di sì.

I presupposti ci sono tutti e per una ragione molto semplice: non s’è riflettuto a sufficienza, al nord come al sud, sulle ragioni e sui guasti di quella stagione, sulle ricadute negative non volute come i rigurgiti antinordisti che hanno gonfiato le vele dei neoborbonici.

E certo, mancando una riflessione, non ha aiutato il maquillage, l’operazione trasformistica di Salvini che è calato al sud senza abbattere i capisaldi dell’ideologia nordista.

Se vogliamo tornare a essere una grande nazione e superare il declino di cui s’è detto occorre con coraggio avviare un’inversione radicale delle politiche sin qui adottate. Un compito che tocca in primo luogo al governo, e poi alle élite, alle classi dirigenti, ai partiti (o movimenti che dir si voglia) al mondo del lavoro, imprenditori e sindacati, agli amministratori, ai burocrati (grandi e piccoli), alla scuola, ai giovani, agli intellettuali, al mondo dell’informazione e dell’editoria. Borghesia e mondo del lavoro, dell’industria e dell’agricoltura, dei servizi, delle nuove professioni, figlie dello sviluppo tecnologico, devono lavorare a un comune disegno che guardi a un’idea dell’Italia in grado di farla diventare protagonista concorrendo, per la sua parte, al benessere e al rilancio economico europeo.

La chiave di volta di un’operazione così ambiziosa è di non pensare che si possa andare avanti se si sviluppa una sola parte del paese. Su questo si valuterà la capacità e il valore dei ministri del nord. È il loro vero banco di prova.

L’idea che il nord fa da locomotiva a cui s’attaccano le altre carrozze del treno non va, è vecchia, superata, obsoleta, non funziona. A meno che il nord non voglia scegliere di fare il sud della Baviera. Ma se, al contrario, l’ambizione è di governare l’intero paese, allora la strada da battere è di coinvolgere il sud considerandolo non come un peso di cui liberarsi, ma come un luogo dove collocare gli opportuni investimenti per far decollare l’economia.

Se decolla l’intera economia decolla l’Italia intera; e l’industria del nord, con tutti i suoi comparti produttivi, ha tutto da guadagnare perché lo sviluppo del sud non avverrà a discapito di quello del nord; anzi! Il punto cruciale è proprio questo: per cambiare radicalmente occorre chiedersi come è visto e come è rappresentato il sud perché per un tempo interminabile la “sussiegosa ottusità” di certe rappresentazioni hanno incatenato il Mezzogiorno a una certa narrazione non tenendo conto che «gran parte dei cosiddetti “vizi” meridionali, non sono, come fa comodo credere, una prerogativa del sud, ma l’effetto di una lunga emarginazione dalla grande storia e della passività e del cinismo che ne derivano» come ci ha spiegato Franco Cassano nel sul libro più famoso, Il pensiero meridiano.

Basta avere in mente la lunga sequela di luoghi comuni e di falsità sul Mezzogiorno raccontati da Gianfranco Viesti nel suo libro Il sud vive sulle spalle dell’Italia che produce (Falso!), per avere un quadro aggiornato.

Intendiamoci bene: i meridionali sono stati incatenati a una certa rappresentazione. Vero, ma la catena l’abbiamo forgiata anche noi con una lega di metallo resistentissima che dura ancora oggi. Noi meridionali non possiamo chiamarci fuori dalle nostre responsabilità, che sono davvero tante e antiche, se vogliamo avere la forza di chiedere che altri assumano lo stesso atteggiamento. Basta leggere Perché il sud è rimasto indietro scritto da Emanuele Felice per rintracciarne le ragioni profonde e le persistenze attuali. Il sud oggi è a un bivio della sua storia, e dalle scelte che si faranno dipenderanno i destini di questa parte d’Italia e dell’Italia tutta.

Un sud è possibile

Rispetto al passato, quando molti meridionali sono emigrati e non sono più tornati se non per vedere i parenti e rispetto all’idea con la quale è cresciuto un meridionale, convinto che nel suo futuro ci sarebbe stata la possibilità, se non la certezza, di emigrare, oggi s’è fatta avanti un’altra idea: è possibile rimanere; di più: è possibile ritornare per rimanervi. È una rivoluzione copernicana, almeno nelle intenzioni e nei desideri. Questo è il bivio: o il passato o il futuro. Il Mezzogiorno è cambiato. Sappiamo da tempo che la realtà meridionale è complessa e per nulla appiattita o uniforme; sappiamo che ci sono differenze territoriali tra città e campagna, tra zone interne e costiere. Ma sappiamo anche che accanto a un Mezzogiorno intollerabilmente arretrato ve n’è un altro: silenzioso, laborioso, con i piedi per terra che non va in televisione e non è in prima pagina nei quotidiani nazionali, che lavora industriandosi o inventando nuove possibilità, facendo leva sulle immense opportunità che possono scaturire dalle nuove tecnologie oppure ancora scoprendo le potenzialità del ritornare a lavorare la terra.

C’è un sud che produce, che innova, che inventa, che crea posti di lavoro. Molti prodotti del sud, e non solo dell’agricoltura, un tempo sconosciuti a livello nazionale, oggi sono presenti nei supermercati e nei mercati d’Italia. La palla al piede del sud è costituita dalla qualità delle sue classi dirigenti e delle sue rappresentanze istituzionali, quelle locali e quelle che si mandano a Roma e a Bruxelles. E da una cultura imprenditoriale di tipo parassitario che pensa ai sussidi, agli aiuti da Roma o dall’Europa e non investe, non innova. Pensa all’assistenza, alla pura sopravvivenza, e non immagina un futuro diverso dal passato e dal presente. C’è tutto un mondo che attende di essere affrontato in termini innovativi. Si pensi all’agricoltura che è grande parte della ricchezza meridionale. Può dare occupazione e un reddito decente liberando le campagne dai legacci delle moderne schiavitù come il caporalato; ma, adeguatamente indirizzata, può dare un contributo a diminuire il riscaldamento del pianeta a cui contribuisce con il 37 per cento delle emissioni globali di Co2 come ci insegnano Terra! e altre associazioni ambientaliste.

Sia chiara un’ultima questione: tutto ciò non sarà un pranzo di gala o una passeggiata, né ci sarà qualcuno disposto a regalare alcunché al Mezzogiorno. Per realizzare certi obiettivi bisogna recuperare, e praticare, alcuni termini della politica che sono stati abbandonati: lotta, conflitto, battaglia politico-culturale che è l’aspetto che di più è mancato. Di questo ci sarà bisogno se si vuole fare un percorso di massa che porti a ridurre le disuguaglianze territoriali e di classe, e a governare i conflitti sociali e la rabbia che sono in agguato, al sud come al nord, se non si daranno le risposte giuste appena ci saremo liberati dal coronavirus; anzi: prima di essercene liberati.

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