C’è chi pensa che il Covid-19 sia un castigo di Dio scagliato su un’umanità cattiva che se lo merita. E c’è pure chi ritiene che la pandemia sia per certi aspetti provvidenziale, un’occasione d’oro per regolare una volta per tutte i conti con uno dei mali che minano la virtù di questo paese, un cancro morale che si chiama gioco. Scommesse, slot, sale Bingo, videolotterie, Superenalotto, Gratta e vinci, Lotto, tutti in un mazzo, considerati più o meno in blocco un gigantesco vizio da correggere se non da estirpare, una palla al piede da rimuovere per rendere gli italiani più sani e felici.

Vista da quest’angolazione la pandemia ha il pregio di tenere forzosamente lontani dalla tentazione i giocatori incalliti. Dopo lo stop imposto con il primo lockdown, ora il governo ne ha deciso un secondo: chiusura fino al 24 novembre prossimo di tutti i luoghi fisici del gioco, i 10mila negozi di scommesse, le 198 piccole cattedrali del Bingo e infine le circa 5mila sale dedicate alle videolotterie (Vlt), slot tecnologicamente avanzate con le quali non si giocano le monetine, ma si possono rischiare centinaia di euro a volta.

I due pilastri

Per chi è contro il gioco la pandemia è anche un’opportunità per provare a scardinare il sistema attuale, basato su due pilastri. Il primo è che l’azzardo può essere legale e il secondo pilastro è che la sua gestione è affidata mediante una gara dallo stato a chi offre le migliori condizioni. Il tutto sotto la regìa dei Monopoli oggi guidati da Marcello Minenna.

Chi contesta questa impalcatura ritiene che sia arrivato il momento di riportare la gestione dei giochi direttamente sotto il controllo dello stato che da regolatore diventerebbe pure gestore. Anche se in passato la mano pubblica con l’azzardo non ha fornito grande prova di sé, lasciando che la criminalità prendesse il sopravvento alla fine degli anni Novanta con il Totonero e non riuscendo a impedire che nei primi anni Duemila la penisola fosse invasa dalla bellezza di 700mila videopoker illegali. Oppure incappando in infortuni clamorosi come i Gratta e vinci di Curno con cui tutti vincevano allegramente decine di milioni di lire.

Nella battaglia riformatrice si distinguono i Cinque stelle che sulla limitazione dell’azzardo statale hanno forgiato parte della loro identità. Molto attivo è il senatore Giovanni Endrizzi che qualche giorno fa si è fatto promotore di un incontro sul gioco e il Covid con esperti, sindacalisti e politici e i cui risultati sono stati pubblicati su Avvenire, il giornale della Conferenza episcopale italiana.

Non sono mancate le proposte, con un obiettivo strategico riassunto dalla sindacalista Cgil Denise Armerini: dopo il Covid «bisognerà limitare e ridurre l’offerta di azzardo. Per evitare che riprenda come prima o addirittura aumenti con l’illusoria speranza delle persone indebitate». Un altro partecipante al convegno, l’avvocato Attilio Simeone ha spiegato come fare: «Coi soldi del Recovery fund si potrebbe uscire dal sistema della concessione e lo stato potrebbe tornare a gestire direttamente il settore».

Secondo il senatore Endrizzi non c’è tempo da perdere: «Le scelte vanno prese ora, alla vigilia della legge di Bilancio e approfittando del Recovery fund», necessario forse per coprire la probabile perdita di gettito attualmente garantita dai giochi allo stato, circa 10 miliardi di euro l’anno.

La fabbrica dei soldi

Il gioco è un enorme affare proprio per lo stato, oltre che per i concessionari e i gestori, anche se spesso chi governa fa finta di dimenticarsene o si vergogna. Un ministro delle Finanze attivo e competente come Giulio Tremonti, per esempio, dei giochi non voleva sentire neppure l’odore anche se poi con quei soldi ci costruiva ogni anno mezza Finanziaria.

In Italia in periodi normali (senza Covid) l’azzardo muove ogni anno 110 miliardi di euro. Novanta di questi ritornano nelle tasche dei giocatori sotto forma di vincite, i restanti 20 (la «spesa» vera e propria) se li dividono in parti quasi uguali lo stato con le tasse e la cosiddetta filiera del gioco, dalla multinazionale Lottomatica alla Sisal controllata da un fondo inglese, dal manipolo di concessionari fino ai gestori delle macchinette, i tabaccai, i dipendenti delle sale, i lavoratori dei negozi di scommesse, 120mila persone in totale che ruotano intorno al business. I 20 miliardi effettivamente spesi dai giocatori sono ovviamente il risultato di apporti diversi secondo i vari tipi di gioco.

La parte del leone la fanno le Vlt, le videolotterie, il fenomeno più recente e incalzante del settore con circa 10,4 miliardi di euro, poi vengono i Gratta e vinci (2 miliardi e mezzo), il Lotto (2,3 miliardi), il Superenalotto (meno di 1 miliardo), l’online (quasi 2 miliardi), il Bingo (400 milioni), le scommesse (800 milioni), le scommesse virtuali (300), l’ippica (100). L’ultimo decreto anti Covid del governo colpisce soprattutto le videolotterie che sono una cosa completamente diversa dalle slot normali (Awp in gergo), giudicate da addettti ai lavori e giocatori meno «performanti» e che si possono trovare ovunque.

Il direttore dei Monopoli Marcello Minenna stima che il primo lockdown abbia provocato un calo del gettito di circa il 50 per cento, intorno ai 5 miliardi di euro. Le nuove chiusure produrranno altri buchi. Comprensibile che i dipendenti della filiera protestino in piazza nonostante il governo abbia promesso ristori anche per le loro attività al pari di quelle di baristi e ristoratori. Secondo altri calcoli la prima chiusura generale anticovid ha causato un calo di circa il 50 per cento nelle giocate delle Vlt, del 30 per cento delle Awp e di un altro 30 per cento nel betting, le scommesse. Con la ripartenza del campionato di calcio queste ultime stavano recuperando il terreno perso, ma il nuovo lockdown le riporta indietro.

Il gioco naviga da anni controvento. Prima del Covid il governo aveva imposto agli appassionati l’inserimento nelle videolotterie della tessera sanitaria con annesso codice fiscale provocando un’ovvia e forte contrazione delle giocate, soprattutto degli stranieri, dai cinesi ai pochi turisti in circolazione.

Assolvere o condannare

In questi ultimi tempi sono fiorite nuove figure anti azzardo, operatori professionali che nei convegni si prodigano per dimostrare quanto il gioco sia da allontanare dalle città perché socialmente pericoloso e inevitabilmente generatore di ludopatia, la malattia da gioco, presentata come un flagello che soprattutto tra i giovani crea dipendenze devastatrici come le droghe.

Questa rappresentazione è stata quasi unanimemente accettata come attendibile da politici, amministratori locali, televisioni e giornali nonostante non ci siano dati certi a suffragarla perché il fenomeno è sfuggente, difficile da quantificare. I pochi dati di fonte affidabile come quelli certificati dall’Istituto superiore di sanità attestano una realtà diversa, cioè che i giocatori non sono giovani, ma hanno in media tra i 40 e i 64 anni, e che la stragrande maggioranza di essi non è affatto malata, ma gioca in modo consapevole.

La lobby dell’azzardo, un tempo potentissima e capace di mettere in riga con un’alzata di sopracciglio parlamentari e pezzi di governo, ora sta perdendo terreno ed è spiazzata. In un delirio di bulimia questa lobby negli anni passati era riuscita a convincere i governanti e il legislatore che fosse opportuno inondare il paese di slot e videolotterie: ne sono state piazzate la bellezza di 400mila.

Oggi gli stessi di allora fanno mea culpa, si sono «autoridotti» le macchinette a 260mila, ma il danno d’immagine è fatto. La condanna incondizionata del gioco fa presa, è diventato un argomento politicamente corretto che compatta mondi apparentemente lontani, dai vescovi ai grillini più agguerriti, dai «benpensanti» ai giornali di ogni tendenza fino ai politici di tutti i partiti che credono di lisciare il pelo agli elettori con la scomunica del vizio. Anche i giocatori sono elettori, ma forse di serie B.

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