Quando le prove scientifiche vengono malintese o manipolate per rispondere ad agende politiche si crea grande confusione, per esempio in merito all’efficacia delle chiusure per contenere la pandemia.

Gli studi critici

È stato recentemente citato in alcune trasmissioni televisive un articolo dell’epidemiologo John Ioannidis, studioso molto critico nei confronti del lockdown, in cui vengono indicati alcuni limiti di metodo dei modelli predittivi sull’andamento dell’epidemia di Covid-19 realizzati dai ricercatori dell’Imperial College, che invece indicavano i lockdown come misure molto efficaci.

L’articolo del gruppo di Ioannidis è fortemente tecnico, e confronta l’andamento dell’epidemia in quattordici paesi con il modello di Imperial College che considerava solo i lockdown, quello in cui si valutavano misure di restrizione della mobilità senza ricorrere al lockdown, e infine con uno che includeva il lockdown insieme ad altri tipi di riduzione della mobilità.

Il modello che meglio prediceva le osservazioni nei quattordici paesi era il secondo, quello che non prevedeva il lockdown.

I problemi

Nell’articolo, Ioannidis e gli altri ammettono che la forte correlazione nel tempo dei lockdown con altre misure non farmacologiche impedisce di isolare l’efficacia di un provvedimento da quella degli altri.

Questa è anche la limitazione di un altro articolo del gruppo di Ioannidis, non ancora pubblicato, che mette a confronto otto paesi con Svezia e Corea del sud (un approccio francamente non molto comprensibile).

Un problema determinante in questi confronti è controllare strettamente il livello di base della epidemia (tasso di incidenza settimanale ed Rt) nelle aree che vengono confrontate. Insomma, queste analisi consentono di dire poco circa il lockdown come tale, e invece molto sull’effetto della riduzione della mobilità realizzata con vari metodi.

Altri studi dicono cose molto diverse dagli articoli di Ioannidis: in un lavoro che ha analizzato le esperienze in 149 paesi nel corso della attuale pandemia, tra le diverse misure restrittive considerate la più efficace era proprio rappresentata da una precoce adozione del lockdown.

Ma disponiamo di osservazioni originali molto eloquenti per l’Italia, meno affette dai limiti descritti sopra.

Gli smartphone

La mobilità umana è uno specchio potente e oggettivo del comportamento delle persone e dell’adattamento durante una pandemia; e oggi abbiamo uno strumento affidabile per osservare la mobilità umana con precisione su scala nazionale: i dati (assolutamente anonimi) dei telefoni cellulari.

Nell’ambito dei lavori della task force “data driven” per la pandemia del ministero dell’Innovazione digitale del governo precedente, di cui abbiamo fatto parte, sono state messe in relazione, per tutte le regioni italiane e a partire da febbraio 2020, due misure decisive: il numero di viaggi giornalieri fra ogni coppia di comuni italiani, misurato grazie ai dati aggregati forniti dagli operatori telefonici (Vodafone e WindTre, in particolare, che ringraziamo), e la circolazione del virus, misurata retrospettivamente attraverso Rt, l’indice di riproduzione dell’infezione che abbiamo tutti imparato a conoscere.

Il rapporto, frutto del lavoro di molti esperti di varie discipline, è liberamente accessibile. L’evidenza che emerge dai dati, rappresentati nei grafici, parla da sola.

La linea blu rappresenta i cambiamenti nella mobilità da inizio febbraio a fine maggio 2020, e quella arancione gli Rt a livello regionale nello stesso periodo. In grigio i casi positivi, al giorno della conferma del tampone.

Quelli mostrati sono i casi della Lombardia e della Campania, ma in tutte le regioni si osserva lo stesso fenomeno: il drastico calo della mobilità per effetto del lockdown nazionale del Marzo 2020 è associato a un analogo calo della trasmissibilità del virus, che rapidamente scende sotto la soglia critica di 1.

I risultati

Sono risultati che si riscontrano ovunque, indipendentemente da quando si registra il picco di circolazione del virus nella regione (anticipato in Lombardia rispetto alla Campania) e dal numero di infezioni (centinaia al giorno in Campania, migliaia in Lombardia).

Non solo, ma dai dati emerge una innegabile correlazione fra la tempestività della chiusura rispetto all’insorgenza dell’epidemia e il numero di casi di infezione rapportato agli abitanti: più si è aspettato a chiudere, più sono stati i casi (e i decessi).

Segni indiscutibili che la chiusura ha funzionato ovunque nella fase 1, riducendo drasticamente i contagi nelle regioni più colpite e preservando le regioni dove ancora il virus circolava poco.

Questi sono dati di fatto, un’analisi retrospettiva su quello che è accaduto un anno fa, non la previsione di un modello. L’efficacia delle chiusure di allora è una realtà, che ci ha risparmiato una tragedia ancora peggiore. Punto.

Dino Pedreschi è professore ordinario di Informatica all’università di Pisa.

 Paolo Vineis è professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra.

 

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