Una piazza per il pugile arrivato negli anni Sessanta alla cintura mondiale. In Australia gli organizzatori fecero suonare Nel blu dipinto di blu. Pensavano fosse l’inno italiano. La sua rivalità con Nino Benvenuti è stata leggendaria
Un autunno di tanti anni fa.
Un signore e un ragazzo parlano all’interno di una palestra, a Cascina.
«Figliolo, un novizio non si è presentato. Ti va di sostituirlo?».
«Ma io non sono mai salito su un ring».
«Non è un problema. Quel tipo lo batti facile».
«Sarà almeno sei chili più pesante di me!».
«Non trovare scuse, lo fai o no questo match?».
«Che ci guadagno?».
«Bistecca, patate, pane e un po’ di frutta».
«Accetto».
Cominciava in quel momento l’avventura pugilistica di Sandro Mazzinghi. La boxe era entrata nella sua testa qualche tempo prima. Aveva scavalcato un muretto, aperto una porta, percorso un lungo corridoio buio e si era trovato dentro il cinema. Soldi per pagare il biglietto non ne aveva. Ma quel film voleva proprio vederlo. Lassù qualcuno mi ama, con Paul Newman, raccontava la vita di Rocky Graziano. Si innamorava di quel personaggio, del mestiere che faceva.
Gli esordi
Era partita in salita la vita di Sandro. A cinque anni conosceva la guerra, scampava a un bombardamento che distruggeva il suo quartiere, Belladimai. Pativa la fame fino a sognare un pezzo di pane, a desiderarlo così tanto da sentirne il profumo, ma quando provava a toccarlo tutto svaniva lasciandolo solo, con tanta rabbia dentro.
Attaccava sempre. Chiudeva l’avversario all’interno di uno spazio non più grande di un paio di metri quadrati. Poi, cominciava il martellamento ai fianchi. Se distruggi le fondamenta, alla fine il palazzo cade. Il 7 settembre 1963 affrontava Ralph Dupas, a Milano, per il mondiale. Quarantamila persone a sostenerlo. Prima del match si inginocchiava nello spogliatoio, pregava. Signore, aiutami a superare i pericoli del match. So che potrebbe andare male, che potrei anche morire sul ring. Sono pronto a farlo. Ho lottato e sofferto nella mia vita. Adesso voglio vincere. Non per me, non per la gloria. Ma perché penso sia giusto. Vinceva per ko tecnico. Bissava il successo nella rivincita a Sydney, davanti a un pubblico composto in gran parte da emigranti. Molti di loro avevano scommesso un mese di stipendio su di lui. Impiegava 13 round per chiudere la pratica. Gli organizzatori facevano suonare Nel blu dipinto di blu, conosciuto nel mondo come Volare. Pensavano fosse l’inno italiano.
La tragedia
Uno spacco profondo sullo zigomo sinistro cambiava la sua vita. Un’operazione avrebbe rimesso tutto a posto. Una buona notizia. Non si sarebbe potuto allenare per tre mesi. Una notizia notizia. Aveva del tempo libero. Una situazione a cui non era abituato. Decideva di accelerare una decisione già presa. Si sarebbe sposato. Lei si chiamava Vera Maffei. Era la più bella ragazza di Santa Croce. Matrimonio, veloce viaggio di nozze. Tragedia. La macchina lasciava Altopascio per imboccare la via Bientinese. Sandro alla guida, Vera al suo fianco. Ennesima curva, un dosso. Il gelo aveva trasformato la pioggia in un sottile strato di ghiaccio. La macchina perdeva aderenza, sbandava. Si accartocciava attorno a un albero. Poi, il buio.
Si erano sposati dieci giorni prima. Vera moriva sul colpo. Sandro si salvava miracolosamente. In ospedale quando apprendeva la notizia si disperava. Mi sento un cencio, un uomo vuoto, un’anima distrutta. Incubi, notti frequentate da demoni. Provava a riprendere il suo cammino. Decideva che l’unico modo per attenuare il dolore fosse quello di affrontarlo. A due mesi esatti dalla tragedia risaliva sul ring. La boxe è la mia vita, alla boxe devo tornare.
La rivalità
In giro si muoveva un altro protagonista. Nino Benvenuti oro a Roma ’60, miglior pugile dei Giochi. Cinquantasei match da professionista, tutti vinti. Di quella sfida ne parlavano al bar, a scuola, al lavoro, per strada, al mercato. Gli incontri sarebbero stati due. Nel primo Sandro era in chiaro vantaggio sino al quinto round, nel sesto montante, dipinto da un maestro della nobile arte quale Nino era, metteva fine alla storia. Mazzinghi era ko.
Rivincita equilibrata, il verdetto avrebbe scontentato chiunque fosse stato dichiarato perdente. Premiava Nino che avrebbe perso il titolo contro Ki Soo Kim a Seul. Il coreano sbarcava a Milano per difendere la cintura contro Mazzinghi. Era una sfida dura, spietata. Nessuno dei due si concedeva pause.
Boxavano sempre all’attacco. Si picchiavano selvaggiamente per 15 riprese. C’erano 45.000 spettatori a San Siro, per un incasso che oggi sarebbe vicino al milione di euro. Vinceva Sandro ai punti. Una corrida, match così ne potevi fare uno solo nella vita. Noi Mazzinghi il pane ce lo sudiamo, è un pane inzuppato nel rischio.
Sandro se ne andava via per sempre il 22 agosto 2020. Lasciava Marisa, con cui aveva diviso cinquant’anni di vita. Due figli, David e Simone. La famiglia era stata il suo rifugio. Molto dell’amaro masticato era rimasto confinato nel libro di ricordi. Lui era Sandro Mazzinghi, l’uomo nato per combattere. Sentirsi amato, di certo non gli dava noia. Anzi, gli garbava assai.
Ieri la sua città ha dato il suo nome a una piazza. In serata è andato in scena al Teatro Era lo spettacolo “Il ciclone di Pontedera”. Oggi sarà consegnato a Marcello Lippi il premio dedicato ogni anno alla memoria del campione.
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