All’inizio del 2020 negli uffici di Emergency si lavorava agli ultimi dettagli di un progetto incubato per un decennio: l’ospedale di chirurgia pediatrica disegnato da Renzo Piano per l’Uganda. Poi è scoppiata la pandemia e per Emergency è cominciata una lunga e imprevista stagione italiana.

L’ong è da tempo attiva anche nel nostro paese con gli ambulatori diffusi del Programma Italia, ma non c’è niente di paragonabile a quello successo col Covid-19, con gli interventi a Bergamo nella prima ondata e a Crotone nella seconda.

La luce nella catastrofe

Nel frattempo il nuovo ospedale in Uganda era stato messo in pausa prima ancora di partire, lo staff richiamato con l’ultimo volo prima della chiusura dell’aeroporto. Ora, con quel misto di idealismo ostinato e senso pratico che è la cifra di Emergency, l’ospedale in Uganda ha finalmente aperto, con un anno di ritardo e in un mondo pandemico. I primi pazienti si chiamano Ramadhan, Topista, Justine, Katongole, Matovu e Jordan, hanno tra i 3 e gli 11 anni, le cure sono come sempre interamente gratuite.

Il centro chirurgico pediatrico ugandese apre una luce sulla catastrofe della disuguaglianza sanitaria globale. Per l’Africa quella disuguaglianza è stata amplificata e portata a un nuovo livello dal limitatissimo accesso ai vaccini per il Covid-19, ma è un problema di ogni paese, in ogni settore, nonostante il fiume di aiuti, 50 miliardi di dollari l’anno (pre Covid-19), secondo l’Ocse. In Uganda fino a poche settimane fa c’erano cinque chirurghi pediatrici per una popolazione di circa 45 milioni di abitanti, di cui la metà sotto i 15 anni.

Netto miglioramento

È bastato aprire un nuovo ospedale per triplicare le possibilità, con tre sale operatorie e 72 posti letto. La strategia di fondo del centro pediatrico è non praticare chirurgia d’urgenza ma solo elettiva, programmabile con liste d’attesa. Questo permette di trattare patologie curabili, che però in una regione quasi senza specialisti equivalgono a una condanna: malformazioni congenite, problemi urologici e ginecologici, anomalie del tratto gastro-intestinale o del sistema biliare, o il labbro leporino, che colpisce un neonato su 800.

Questa storia comincia nel 2007, quando viene inaugurata la prima delle operazioni di questo tipo in Africa per Emergency, il centro di cardiochirurgia a Khartoum, in Sudan, il cui impatto sarebbe stato negli anni successivi di 6mila interventi e 75mila visite specialistiche a pazienti da 28 paesi diversi, oltre la metà sotto i 26 anni. L’idea di Emergency è stata fare di Khartoum un modello, il primo pezzo di una rete che fu chiamata Anme, African Network of Medical Excellence, con un accordo siglato con 13 paesi africani a San Servolo, Venezia, nel 2008. Il centro di Entebbe, a 1.200 metri di altitudine in riva al lago Vittoria, è il secondo tassello di questa rete. L’ha disegnato Renzo Piano, gratuitamente, su richiesta di Gino Strada, che nel 2012 gli aveva commissionato un ospedale sostenibile e «scandalosamente bello». Il grosso del lavoro è stata la ricerca di fondi: il 20 per cento della costruzione e dell’operatività li paga l’Uganda, che rimane committente e destinatario del progetto, il resto sono state donazioni raccolte da Emergency, per un totale di 23 milioni di euro.

L’ospedale in Uganda, come quello in Sudan, curerà pazienti da tutta la macro-regione. Nei piani di Emergency c’è una terza struttura chirurgica da aprire in un altro paese africano, ma al momento è un orizzonte lontano: in Uganda dalla prima idea all’apertura sono passati 14 anni.

Rafforzare il sistema

Il primo impatto sarà ovviamente sulla mortalità infantile, che sotto i cinque anni in Uganda è di 46 morti per 1.000 nati vivi, con un terzo dei decessi causato dalla mancanza di cure chirurgiche adeguate. Il secondo è di sistema: se l’obiettivo di ogni giorno è salvare o migliorare vite umane, quello a lungo termine è la formazione di una classe medica stabile e duratura: «Il paese non è sprovvisto di strutture e nemmeno di cultura sanitaria, la cosa che manca di più sono i professionisti», spiega Marcello Cospite, coordinatore del programma in Uganda, arrivato sulle rive del Lago Vittoria già per la posa della prima pietra. Tra medici e infermieri la ratio del personale è 20 per cento staff internazionale e 80 per cento locale. L’età degli assunti in Uganda è bassa, sia anagrafica sia lavorativa, con massimo un anno di esperienza alle spalle. Il senso è formare da zero una generazione di professionisti ugandesi, per contrastare quello che la presidente di Emergency Rossella Miccio definisce «brain drain», cioè la fuga dei cervelli che, non potendo lavorare in strutture in grado di curare i pazienti, decidono di andarsene all’estero, un circolo vizioso che svuota la sanità africana. «La visione di Emergency per l’Africa», aggiunge Miccio, «è andare oltre gli interventi emergenziali, rafforzare il sistema nel suo complesso».

Formazione

La formazione riguarda tutte le figure professionali, non solo medici e infermieri, perché un ospedale è un mondo e una sala operatoria o una terapia intensiva non possono funzionare se quello che c’è intorno non gira: «In tutta l’Uganda non c’era un tecnico in grado di riparare biomedicali, avevamo trovato la stessa situazione in Sierra Leone e in Repubblica Centroafricana», spiega Pietro Parrino, direttore del Field operations department. «Medici e infermieri da soli non possono nulla, se non hanno letti, materiali, elettricità, organizzazione e supporto. Gli ospedali in Africa non funzionano anche perché saltano i generatori, perché non ci sono operai specializzati in grado di riparare le attrezzature, perché manca il budget per comprare il gasolio, perché spesso i materiali che arrivano sono scarti della produzione occidentale venduti a costi di prima fascia, perché mancano i contatti e le reti di vendita per comprare i pezzi di ricambio. Anche con tutta la volontà, spesso mancano le precondizioni per gestire degli ospedali». La formazione su questo livello dello staff locale (più di 300 addetti) è stata e sarà fondamentale affinché la macchina, una volta partita, possa non fermarsi, in vista dell’obiettivo di lungo termine: consegnare la struttura alla sanità ugandese.

L’ostacolo

Come ostacolo finale c’è stato il Covid-19, che in Uganda ha colpito meno che altrove: circa 40mila casi (con pochi tamponi effettuati) e 334 vittime accertate. «Le misure sono state rigide, a differenza di altri paesi africani, col coprifuoco dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino», spiega Cospite, che è rimasto nel paese tutto il tempo, anche dopo l’evacuazione. «La struttura della popolazione e il fatto che si viva molto all’aperto ha evitato gli effetti peggiori».

La sfida vera è la vaccinazione, il programma CoVax dell’Oms qui porterà un milione di dosi di AstraZeneca, utili a vaccinare poco più dell’1 per cento della popolazione. «È successa la stessa cosa con i dispositivi di protezione, e poi con i tamponi», spiega Rossella Miccio, «I paesi occidentali si sono accaparrati tutto a costi insostenibili, all’Africa non è rimasto nulla. Ora sta succedendo con i vaccini, con questo ritmo l’immunità di gregge si raggiungerà tra sette anni. Il virus farà in tempo a mutare un’infinità di volte».

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