Il 19 luglio 1992, solo 57 giorni dopo la strage di Capaci, una nuova ferita si apre nel cuore dell’Italia: in via D’Amelio, a Palermo, un’autobomba uccide il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi e Vincenzo Li Muli. Anche questa volta, come a Capaci, la mafia alza il tiro, colpendo con violenza magistrati determinati, che ormai sanno che il prezzo da pagare può essere altissimo.

Da quel giorno nulla è più come prima. Il sangue versato in via D’Amelio scuote profondamente la coscienza collettiva del Paese, risvegliando in molti un senso di responsabilità e di urgenza. Le stragi rompono il silenzio e segnano un momento di forte reazione. Migliaia di giovani, nelle piazze, nelle scuole, nelle università, cominciano a dire “basta” a un sistema mafioso che non è più solo un problema siciliano, ma un cancro che intacca tutta la penisola.

Un movimento dal basso

Per la prima volta in Italia nasce un movimento antimafia dal basso. Sorge soprattutto tra tanti giovani, siciliani in primis, ma non solo, che per la prima volta capiscono quanto la lotta alle mafie debba necessariamente passare anche per una presa di coscienza collettiva e per una mobilitazione sociale in grado di reagire agli eventi che hanno sconquassato di fatto l’anima del nostro Paese.

Prima di quei tragici giorni, l’antimafia è spesso percepita come una lotta confinata a pochi coraggiosi, giornalisti e attivisti che denunciano le attività mafiose mettendo a rischio la propria vita. Al contrario, dopo le stragi del 1992, l’indignazione popolare si trasforma in mobilitazione attiva. I giovani siciliani, stanchi di vedere la propria terra associata alla violenza e all’illegalità, iniziano a organizzarsi in associazioni, comitati e movimenti con l’obiettivo di promuovere la cultura della legalità e di contrastare l’influenza mafiosa. In tanti decidono di non abbandonare la Sicilia. Scelgono di restare, con uno spirito di militanza che trova le proprie radici nella volontà di cambiare le cose. È per questo che si può dire che gli anticorpi necessari per sconfiggere le mafie siano nati proprio a partire da studenti e studentesse.

A più di trent’anni dalle stragi del 1992, i giovani scelgono ancora una volta di ripartire dall’antimafia dei territori, concentrandosi sulle periferie e affrontando le difficoltà sociali ed economiche che spesso danno nutrimento alla criminalità organizzata. Il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie, ad esempio, è diventato un simbolo del riscatto delle comunità locali. Tante realtà, in cui emerge con forza un chiaro impegno giovanile, hanno trasformato questi beni in centri culturali, cooperative sociali e spazi di aggregazione, dimostrando che è possibile costruire alternative positive ai sistemi mafiosi.

E se è vero che le stragi hanno rappresentato una ferita profonda nel cuore dell’Italia, hanno anche innescato una reazione potente e diffusa. I giovani, in particolare, hanno saputo trasformare il dolore e l’indignazione in azione concreta, dando vita a un movimento dal basso che continua a crescere e a evolversi, ancora oggi.

Un dizionario collettivo

Attraverso l’informazione, l’educazione e l’impegno sul territorio, le nuove generazioni stanno costruendo un futuro in cui la cultura dell’antimafia e della giustizia sociale siano al centro della società. Lo fanno anche in dialogo con le generazioni precedenti, con chi prima di loro si è battuto per le grandi conquiste sociali e civili del nostro paese. Non è un caso se le associazioni studentesche – come la Rete degli Studenti medi e l’Unione degli Universitari – portino avanti, anche sui temi della legalità e della giustizia sociale, progetti congiunti con il sindacato dei pensionati della Cgil, proprio per promuovere una cultura democratica capace di sviluppare gli anticorpi contro mafie e illegalità. Un vero e proprio patto tra generazioni che passa per la memoria e si traduce in impegno concreto per il presente e il futuro.

È all’interno di questa cornice, fatta di dialogo, impegno e partecipazione, che nasce L’antimafia parola per parola. Conoscere per resistere, un libro progettato e realizzato proprio dallo Spi Cgil insieme alla Rete degli studenti medi e all’Unione degli universitari. Un dizionario collettivo, scritto a più mani da generazioni diverse – illustrato dalle immagini vivide di Miriam Balli – che racconta in modo semplice e accessibile il fenomeno mafioso in tutte le sue declinazioni. Perché comprendere è il primo passo per reagire. E perché solo attraverso un sapere condiviso si possono costruire comunità più giuste e più libere.

Paolo Borsellino diceva che la lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale che coinvolge tutti. A più di trent’anni dalla strage di via D’Amelio, il messaggio che viene da quei luoghi è ancora forte: le mafie si combattono non solo nelle aule dei tribunali, ma nella quotidianità, nell’educazione, nella cura dei legami sociali. La memoria di Falcone e Borsellino non è commemorazione sterile, ma seme di cambiamento. I giovani lo sanno. Sanno che ricordare significa scegliere da che parte stare. E oggi più che mai, scelgono di stare dalla parte di chi costruisce, di chi lotta, di chi non si arrende.

E la memoria non è un esercizio del passato, ma la base su cui costruire il futuro. Anche per questo, ogni 19 luglio, ricordare via D’Amelio significa rinnovare una scelta: quella di non voltarsi dall’altra parte. Di coltivare la speranza e la giustizia come semi di resistenza. Di credere ancora, ostinatamente, che un’altra Italia è possibile, senza mafie e senza corruzione.

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