Ci è voluta quasi un’ora di tempo per leggere la sentenza del tribunale di Patti che ha condannato novantuno persone a seicento anni di carcere. È questo il risultato del maxiprocesso contro la cosiddetta “mafia dei pascoli” che si è concluso nella serata del 31 ottobre e che vedeva imputati 101 persone – di cui dieci assolte – nell’ambito dell’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Messina sulle truffe in agricoltura all’Agea e sugli assetti dei gruppi mafiosi tortoriciani.

Dopo una camera di consiglio durata oltre 170 ore in cui il presidente Ugo Scavuzzo ed i giudici a latere, Andrea La Spada ed Eleonora Vona, sono entrati lo scorso 24 ottobre è stata emanata una sentenza che ha portato anche al sequestro dei beni per un valore complessivo di tre milioni di euro.

La vicenda

Il processo inizia dopo le indagini del Gico della guardia di finanza di Messina nel territorio dei Nebrodi che hanno permesso di approfondire gli affari e gli assetti dei clan dei Batanesi e dei Bontempo. Al centro del loro business criminale c’erano i contributi di Bruxelles legati ai fondi all’agricoltura che erano percepiti illegalmente.

Un sistema che è stato bloccato dal “protocollo Antoci”, un testo emanato dall’allora presidente del Parco dei Nebrodi, GIuseppe Antoci, che prevedeva la presentazione del certificato antimafia per l’assegnazione degli affitti dei terreni nell’area. Quel protocollo è poi diventato legge ed è stato inserito all’interno dell’ordinamento nazionale. Ma Antoci, oggi presidente onorario della fondazione Caponnetto, ha subìto gravi minacce per il suo operato.

L’operazione antimafia fu una delle più grandi mai avvenute in Sicilia con oltre 90 arresti. Gli imputati erano accusati a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, danneggiamento a seguito di incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falso, trasferimento fraudolento di valori, estorsione e truffa aggravata.

Le dichiarazioni di Antoci

LaPresse

«È un momento importante perché questo paese ha bisogno di risposte, da questa esperienza esce la risposta di un territorio che ha fatto il suo dovere. Abbiamo fatto quello che andava fatto, abbiamo superato il silenzio e abbiamo fatto capire che i fondi europei dovevano andare solo alle persone per bene e non ai capimafia», ha detto ieri Giuseppe Antoci dopo la lettura della sentenza.

«Quest’aula stasera ha dato un segno di libertà ma anche di dignità. Queste condanne che mi addolorano, perché in fondo non è proprio una vittoria quando le persone vanno in carcere. La lotta alla mafia non si può fare solo con la repressione ma va fatta ogni giorno. Questa esperienza dimostra che da un piccolo territorio nasce un protocollo di legalità che la Commissione europea considera tra i più importanti. Rompiamo questo muro di silenzio».

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