Per decenni la narrazione delle mafie è stata accompagnata da una serie di stereotipi e luoghi comuni. Tra questi uno dei più diffusi è quello per cui le organizzazioni criminali non ucciderebbero donne e bambini in virtù di un qualche codice d’onore. Ma i numeri mostrano una realtà ben diversa
Che la mafia non uccida donne e bambini è uno di quei luoghi comuni che per decenni ha accompagnato la narrazione della criminalità organizzata. Uno stereotipo, basato sull’esistenza di un presunto codice d’onore a cui si atterrebbero gli uomini delle cosche, che sembra quasi giustificare i clan ma che non ha nessun fondamento. La realtà, infatti, mostra una situazione profondamente diversa. Mostra una mafia che non si ferma davanti a niente e nessuno pur di perseguire i propri scopi. Certo, è statisticamente più frequente l’incontro-scontro con adulti maschi, ma non c’è alcuna remora ideologica o morale che impedisca di uccidere donne e bambini. E i numeri lo testimoniano: delle 1101 vittime innocenti delle mafie, dal 1861 ad oggi, 145 sono donne e 120 sono bambini.
Donne che si ribellano
La narrazione collettiva troppo spesso ci consegna una visione stereotipata della donna come elemento fragile, debole, destinato a subire. Una visione che rende quindi difficile immaginare una donna che si espone duramente contro le mafie pagando il prezzo più alto. Non sorprende quindi se per tanto, troppo, tempo le donne vittime di mafia sono state raccontate come soggetti passivi di un disegno criminale o come figure che fanno da sfondo a personalità maschili. Una narrazione che contribuisce ad alimentare la credenza secondo cui la mafia non ucciderebbe, volontariamente o per sbaglio, una donna. Ma la realtà ancora una volta è diversa. Oggi, come ha sottolineato più volte il professor Nando dalla Chiesa, le donne non solo svolgono un ruolo attivo nel contrasto alla criminalità ma sono «l’ossatura del movimento antimafia».
Se mai ci fossero dubbi sulla forza rivoluzionaria delle donne contro la mafia la storia recente ci propone una vicenda senza precedenti per la sua portata. Una vicenda riassumibile con un nome: Lea Garofalo. Nata a Petilia Policastro in una famiglia di ‘ndrangheta si innamora giovanissima di Carlo Cosco che segue a Milano, dove l’uomo controlla il traffico di droga della zona di via Paolo Sarpi. A soli 17 anni rimane incinta di Denise, la figlia che tenterà di proteggere da un futuro criminale lasciando il compagno e staccandosi dalla propria famiglia. Sognava un avvenire diverso per la sua bambina, un futuro normale, lontano dalle logiche delle cosche. Un sogno infranto il 24 novembre 2009 quando nella civilissima Milano, dove persino il prefetto negava la presenza delle mafie, venne rapita e uccisa dall’ex compagno Carlo Cosco che non accettava la sua scelta di libertà. Del suo corpo martoriato e dato alle fiamme non restò quasi nulla. Una ferocia criminale inimmaginabile che si abbatte sull’ennesimo corpo femminile che aveva osato ribellarsi al potere mafioso.
C’è Renata Fonte che uccisa dai clan a 33 anni perché nella sua attività di assessora alla cultura e all’istruzione del comune di Nardò, in Puglia, si oppose alla lottizzazione e alla cementificazione di Porto Selvaggio. E poi Francesca Morvillo, tra le prime donne magistrato, morta a 47 anni nella strage di Capaci insieme al marito Giovanni Falcone. E ancora Rossella Casini, uccisa a 24 anni per aver spinto il compagno Francesco Frisina a collaborare con la giustizia e denunciare la sua famiglia. O Lia Pipitone, fatta uccidere da suo padre nel settembre 1983 per essersi ribellata alla famiglia mafiosa. E come loro centinaia. Donne, madri, sorelle. Uccise per essersi ribellate alla mafia. Vittime innocenti di un potere che opprime. A prescindere dal sesso e dall’età.
I più innocenti
Ed infatti nemmeno i più piccoli sono esenti dalla violenza dei clan. Caterina Nencioni aveva solo 53 giorni quando è stata uccisa. Era insieme ai genitori e alla sorella Nadia, 8 anni, in via dei Georgofili, a Firenze, nel momento esatto in cui la mafia tentò di colpire con un’autobomba gli Uffizi. Correva l’anno 1993 e Cosa nostra era impegnata nella sua offensiva nei confronti dello stato.
Domenico Gabriele, per tutti Dodò, invece stava giocando con gli amici su un campo da calcio quando venne raggiunto dai colpi di due sicari incaricati di uccidere un piccolo criminale locale. Morì a undici anni dopo tre mesi di agonia. Di anni ne aveva 16, invece, Michele Fazio, anche lui colpito per errore nel corso di una sparatoria tra clan rivali a bari vecchia.
E anche qui, spesso, la narrazione diventa stereotipo: sono morti perché si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato. Vittime collaterali rimaste uccise per un tragico errore. Ma la realtà ancora una volta è diversa. Non esiste né un posto sbagliato, né un momento sbagliato per i 120 bambini e ragazzi vittime innocenti di mafia: un campo di calcetto, il portone di casa, la pizzeria, la piazza, l'auto dei genitori. Al posto sbagliato ci sono sempre assassini e mafiosi.
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