L’ultimo mucchio di ossa affiora alla fine dell’anno scorso, prima di Natale. Il livello dell’acqua è basso per le poche piogge, un contadino scorge in lontananza una macchia scura, si avvicina agli argini della diga e capisce che non è un cespuglio e non è la carcassa di un animale. Sono due scheletri. Accanto, c’è una corda e c’è anche un cubo di cemento. Scheletri, corda e cubo di cemento da questi parti sono come un’operazione matematica: è uguale a “lupara bianca”, il sequestro senza ritorno, rapimento, soppressione, occultamento di cadavere. È il modo più “pulito” di uccidere: non c’è corpo del reato, non c’è reato.

«E con questi due, fanno sedici», si lascia sfuggire di bocca il carabiniere che rovista fra i “resti umani” portati a galla dalla siccità. L’invaso, fra Roccamena e Contessa Entellina, una volta era la diga Garcia ma oggi è la diga Mario Francese, il giornalista che già cinquant’anni fa scoprì Totò Riina che allungava le mani sulla costruzione di questo laghetto artificiale incastrato fra campagne di terra buona. Sul suo fondo c’è “un cimitero della mafia”, la tomba degli scomparsi. Quattordici quelli ripescati prima e i due di dicembre, quattordici più due uguale sedici.

Da quanto sono lì gli ultimi scheletri? Da mesi? Da anni? I medici legali del Policlinico di Palermo studiano il caso e così anche gli esperti del Ris, il reparto di investigazioni scientifiche dei carabinieri.

Non si sa come e non si sa perché ma due settimane dopo il ritrovamento degli scheletri, la sera dell’Epifania del 2021, si diffonde la voce che potrebbero appartenere a due palermitani, padre e figlio, svaniti nel nulla il 3 agosto del 2007. Passano altri dieci giorni e arriva una smentita dai laboratori: quelle ossa sono rimaste sott’acqua per almeno un quarto di secolo e «gli accertamenti escludono categoricamente la riconducibilità dei predetti reperti ai due». Così la “scomparsa dei Maiorana”, Antonio e Stefano, 47 anni il primo e 22 il secondo, ritorna mistero come lo era già nell’estate che li ha inghiottiti fra un cantiere a Isola delle Femmine e un campo a Torretta, in linea d’aria una dozzina di chilometri con in mezzo l’aeroporto di Punta Raisi.

La scomparsa dei Maiorana

Non hanno lasciato niente. Neanche un messaggio, una lettera come aveva fatto Ettore Majorana, il fisico che la sera del 25 marzo del 1938 s’imbarca sul piroscafo Napoli-Palermo e poi diventa un fantasma. I giornali locali per un po’ giocano con i titoli sulla “scomparsa dei Maiorana” e la scomparsa di Majorana, famoso libro di Leonardo Sciascia scritto per l’Einaudi nel 1975 dove è ricostruito l’enigma intorno a uno degli allievi di Enrico Fermi - i “ragazzi di via Panisperna” - che fa perdere le sue tracce in «una minuziosamente calcolata e arrischiata architettura» per non collaborare più alle ricerche sulla bomba atomica. Ma, oltre all’assonanza dei nomi, c’è niente in comune fra i due misteri. Nella vita di Antonio e Stefano c’è solo tanta spericolatezza. Affari di edilizia, sesso e ricatti, un socio eccellente legato all’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino prima e al senatore Marcello Dell’Utri poi, un’indagine condotta da Cosa nostra al suo interno che porta in un vicolo cieco, Matteo Messina Denaro che s’invaghisce a quanto pare di una bella e indecifrabile donna e che per miracolo (o per una soffiata dall’alto?) scansa la cattura all’ultimo istante. Mai, nella sua lunga latitanza, Matteo era stato così vicino a una trappola.

Giallo e trama di mafia si confondono, un’inchiesta giudiziaria aperta e chiusa e poi ancora riaperta e di nuovo richiusa, indagati che entrano ed escono dall’investigazione, sospettati che muoiono, testimoni terrorizzati e testimoni reticenti, prove svanite, unica “pista” un numero di Topolino con a margine una scritta su mandanti presunti.

Sono vivi o morti i Maiorana? Sono stati sequestrati e uccisi o si sono allontanati dalla Sicilia di loro volontà? Due turisti calabresi dicono di averli visti una notte a Barcellona, in una discoteca sulle ramblas. Qualcun altro li ha segnalati in Colombia, a Cali. Li cercano ma nel frattempo se ne va un altro dei Maiorana, Marco, ventidue anni, il secondo figlio di Antonio. È nella sua stanza, apre la finestra e si getta dal settimo piano. Il 6 gennaio del 2009, un anno e mezzo dopo la sparizione di Antonio e Stefano, il cadavere del ragazzo è sul selciato di un cortile dove affacciano gli uffici di un commissariato di polizia. Disperazione per la sorte del fratello e del padre? Paura? I Maiorana scomparsi adesso sono tre. La famiglia Maiorana non è più una famiglia.

Il video compromettente

Antonio ha una nuova compagna, Karina Andrè, 37 anni, un’argentina che vive in Sicilia. La sua ex moglie, Rossella Accardo, è rimasta nella vecchia casa. I due figli, Stefano e Marco, stanno insieme in un altro appartamento. Antonio Maiorana è uno dei tanti imprenditori di Palermo, nipote di un vecchio appaltatore che accumula una discreta fortuna e che introduce Antonio nel difficile e scivoloso mondo del mattone. Alla morte dello zio gli affari non vanno bene come dovrebbero, Antonio si dà da fare come può ed entra in contatto con alcuni pezzi grossi del cemento, in particolare uno. Si chiama Francesco Paolo Alamia, è un nome pesante a Palermo. È assessore comunale al Turismo nel 1970, quando sindaco è l’amico Vito Ciancimino che è anche suo socio. Alamia è uno dei protagonisti del grande “sacco” della città, costruisce palazzi in via Roccaforte, in via Empedocle Restivo, in via Duca della Verdura, in piazza Principe di Camporeale, in piazza Verdi. Nel 1977 è a capo dell’Inim, il terzo gruppo immobiliare italiano, nel giro ci sono anche i fratelli gemelli Marcello e Alberto Dell’Utri. Mai condannato per mafia, Francesco Paolo Alamia viene considerato comunque “socialmente pericoloso” e “imprenditore di riferimento” di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

Il costruttore Antonio Maiorana e suo figlio Stefano fanno business con questo “monumento” della Palermo nera, Antonio è consulente di Alamia per attingere a finanziamenti regionali per realizzare alloggi, 55 appartamenti sono quasi finiti alla periferia di Isola delle Femmine, un’altra cinquantina sono in forse su un terreno a Torretta. Come consulente Antonio ha un compenso di 50mila euro ma all’improvviso ne chiede 100mila, si mettono daccordo per 75. Antonio però vuole di più: vuole la metà delle quote delle due società di Alamia, “la Calliope” e ”l’Edilia”. Crede di avere in mano l’arma giusta per raggiungere il suo scopo: un video. Scrive, il 4 gennaio 2019, il sostituto della procura antimafia di Palermo Roberto Tartaglia che segue l’inchiesta: «Le indagini svolte consentono di ritenere comprovato che Antonio Maiorana, prima di essere ucciso, abbia ricattato pensantemente Francesco Paolo Alamia, utilizzando a tal fine un filmato pornografico che ritraeva quest’ultimo durante un rapporto sessuale orale consumato con una minorenne». Un video girato, qualche anno prima, nella casa di Alamia ad Altavilla Milicia.

La circostanza è confermata da un altro socio di Maiorana, Diego Lopez, l’uomo al quale finiscono poi anche il 50 per cento delle quote della “Calliope” e dell’“Edilia" e che subito dopo verranno trasferite alla bella Karina Andrè, la compagna di Antonio. Diego Lopez, fra timori e brividi, racconta delle minacce che l’imprenditore scomparso aveva rivolto, se non avesse acconsentito alla sua richiesta, a Francesco Paolo Alamia: «Ti rovino... ti faccio finire sui giornali». Da semplice collaboratore esterno Antonio Maiorana, dieci giorni prima della scomparsa, si appropria di mezza azienda di Alamia. Sembra che ogni pezzo del quadro criminale si sistemi a perfezione con gli altri. Il filmato, il ricatto, le quote cedute, il movente.

L’ultimo appuntamento

Ma il magistrato non ha prove su Alamia (che intanto, nel 2019, muore a 85 anni) e chiede per lui l’archiviazione. L’indagine, nonostante l’impulso del sostituto Tartaglia, non disvela il segreto della scomparsa dei Maiorana e sulla scena uno dopo l’altro si materializzano nuovi personaggi.

Uno è Giuseppe Di Maggio di Torretta, figlio di Lorenzo, condannato per associazione mafiosa e cognato del potente boss Salvatore Lo Piccolo detto “il barone”, un’appendice di Provenzano a Palermo, arrestato nel novembre del 2007 - a tre mesi dalla sparizione dei Maiorana - dopo 25 anni di latitanza. Di Maggio è l’ultimo ad avere un appuntamento, almeno secondo gli investigatori, con Antonio e Stefano Maiorana. Quella mattina, il 3 agosto 2007, intorno alle cinque e quaranta Stefano è al cantiere di Isola delle Femmine e parla con Diego Lopez. Gli dice che sta aspettando suo padre perché, insieme, devono andare a visionare un terreno a Torretta dove vogliono costruire un altro residence. Di Maggio negherà sempre di avere visto i due. Da quell’incontro, avvenuto o mancato, Antonio e Stefano Maiorana non ricompaiono più. La sola orma che si lasciano alle spalle è la Smart di Stefano, parcheggiata alle “partenze” dell’aeroporto di Punta Raisi. I Maiorana la posteggiano lì prima di prendere un aereo per fuggire o qualcuno lo ha fatto al loro posto, come depistaggio? I carabinieri cercano le immagini di sei telecamere puntate sull’aeroporto, ma scoprono che tutte e sei quella mattina sono spente.

Strane telefonate

Scrivono i magistrati: «Le indagini non hanno consentito, a distanza di anni dai fatti, né di circoscrivere il periodo del malfunzionamento né di identificare gli addetti alla manutenzione». Nessuno ha visto i Maiorana sulla loro Smart, nessuno ha visto qualcun altro portare la Smart al parcheggio. Se messinscena c’è, chi la organizza sa che quelle telecamere non posso inchiodarlo: non c’è una sola registrazione. Gli investigatori esaminano anche i tabulati telefonici. C’è un messaggio di Antonio inviato alle 5.28 di quella mattina dal suo telefono al telefono di Alamia, c’è una telefonata dell’argentina Andrè sempre ad Alamia (lunga 259 secondi) alle 19.37 di quel 3 agosto e ce n’è un’altra (di 225 secondi) alle 22.59 della stessa serata. Perché Karina Andrè chiama l’uomo che Antonio sta ricattando e a poche ore dalla scomparsa del compagno? Ci sono testimoni che rivelano di un’altra arma, in possesso di Antonio Maiorana, per avere la metà delle quote della “Calliope” e di “Edilia”: denaro che scotta. Riferiscono di conti crifrati all’estero nella disponibilità di Francesco Paolo Alamia, probabilmente in Lussemburgo. Soldi di Cosa nostra, qualcuno parla anche del grande tesoro nascosto di Vito Ciancimino. Una ridda di indiscrezioni e una montagna di indizi.

Senza verità

Si cerca anche nel terreno di Torretta, l’ultimo probabile luogo dove i Maiorana sono insieme e sicuramente vivi. Lì c’è un pozzo, i vigili del fuoco si calano con le corde, trovano una scarpa e brandelli di un sacco di plastica «con macchie rosse apparentemente di provenienza ematica». Ma non sono di Antonio e di Stefano. Il sostituto procuratore Roberto Tartaglia, senza cadaveri, non può fare altro che arrendersi. Anche Giuseppe Di Maggio esce dal groviglio delle investigazioni ma l’avvocato Giacomo Frazzitta, difensore di Rossella Accardo, la madre di Stefano e Marco, si oppone all’archivizione e chiede nuove indagini esplorative.

Nel maggio del 2021 però l’affaire Maiorana è chiuso per sempre. Una decisione che non piace all’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Rossella Accardo: «Questa è una storia di omertà e prepotenze miste a lentezze e ritardi investigativi, bisognava capire prima chi aveva la manutenzione delle telecamere nel tratto di autostrada più tragicamente conosciuto al mondo, una richiesta che sebbene avanzata più volte solo nel 2015 la procura si è premurata di approfondire... ormai era troppo tardi». Senza cadaveri, senza verità.

Topolino

Ma come sono arrivati gli investigatori a conoscere i retroscena del burrascoso rapporto fra Antonio Maiorana e Francesco Paolo Alamia, i ricatti, le ragazze che Antonio gli procurava, il terreno di Torretta, l’appuntamento con Giuseppe Di Maggio? Da un fumetto, da un Topolino ritrovato fra gli oggetti personali di Marco Maiorana, l’altro figlio, quello che si è gettato nel vuoto.

L’ex moglie di Antonio Maiorana è già disperata quando il figlio Stefano sparisce insieme al padre, quando poi perde anche Marco la tragedia è senza fine. Nelle lunghe giornate passate a ricordare i figli Rossella si ritrova fra le mani un vecchio Topolino, lo apre e il 29 aprile 2010 lo consegna ai carabinieri. Da pagina 48 a pagina 71 ci sono annotazioni, la scrittura è quella di Marco. È una prima luce: «Mio padre diceva che se vuoi sconfiggere il tuo nemico devi fartelo amico. Paolo (Alamia, ndr) era il suo peggiore nemico e doveva pagarla». E ancora: «Ricattare Paolo per avere il 50 per cento della Calliope diventò il suo pensiero fisso. Karina avrebbe fatto da spalla conquistando tutti con promesse di soldi e sollecitando interessi sessuali. Non ho mai creduto che mio fratello e mio padre si siano allontanati per scelta».

E infine: «Con Karina abbiamo distrutto la memoria del pc e il materiale con cui si teneva Paolo e Dario ricattabili. Abbiamo temuto per le nostre vite». Parte l’indagine, i carabinieri scoprono che, già il giorno dopo la scomparsa dei Maiorana, l’argentina chiama a casa sua il tecnico informatico Andrea Avellino. Ha fretta di cancellare qualcosa dal suo computer. C’è anche Marco. Il tecnico “smonta” l’hard disk dal pc e Karina gli dice: «Non voglio che polizia e carabinieri vedano immagini pornografiche».

Importantissimo

Che fine fa l’hard disk? Ci sono due versioni. Il tecnico sostiene che è rimasto alla donna, la donna dice che se l’è portato via il tecnico. Gli investigatori credono a quest’ultimo.

Anche perché Karina, interrogata, giura di non avere mai saputo niente dei ricatti di Antonio. Il tecnico informatico viene ascoltato due volte. La prima è terrorizzato, non riesce a parlare, sviene davanti ai magistrati. Viene riconvocato in procura e mette a verbale: «Quando il mio rapporto con Karina è diventato più intimo, mi ha confessato che aveva una relazione con un mafioso di Trapani, mi disse che “era importantissimo” e che aveva un potere tale da risolvere qualsiasi tipo di problema. Karina mi ha detto che questo mafioso aveva letteralmente perso la testa per lei e che le chiedeva di diventare la sua donna e che era disposto a tutto per raggiungere questo obiettivo. Ritengo che questa persona possa essere Matteo Messina Denaro».

Quasi in trappola

Nell’affaire Maiorana, come d’incanto, si manifesta il latitante numero uno di Cosa nostra. C’è anche un altro testimone, Vincenzo Di Silvestro, che dichiara: «Una volta Karina mi ha detto che stava con un soggetto che “contava” e che una sera sul lungomare di Trapani era insieme al suo compagno e altre persone... scesero dalla maccchina e uccisero a colpi di pistola un uomo... mi disse che il soggetto al quale era legata sentimentalmente, quando aveva problemi con altri, li eliminava fisicamente».

Karina non gli fa il nome di Matteo Messina Denaro, ma lui intuisce che sia proprio il superboss di Castelvetrano. Fantasie? Suggestioni? L’argentina, interrogata, nega tutto.

Il nome di Matteo Messina Denaro ritorna però nel caso Maiorana da un’altra parte. Quando Antonio e suo figlio Stefano spariscono, dentro la mafia di Palermo succede il finimondo. A comandare è ancora Salvatore Lo Piccolo, latitante dal 1998. Governa un territorio esteso che va dalla Piana dei Colli fino a Capaci, il suo regno comprende anche Isola delle Femmine dove c’è il cantiere di Alamia e del suo consulente Antonio Maiorana. Quando i giornali pubblicano la notizia della scomparsa, il boss Lo Piccolo è in preda all’ira, quel cantiere ha la “messa a posto”, paga regolarmente il pizzo, è un appalto protetto. Chi osa infrangere una delle leggi sacre di Cosa nostra? Lo Piccolo ordina un’indagine fra le sue famiglie per capire chi ha dato l’ordine, chiede informazioni anche a quel Giuseppe Di Maggio di Torretta che gli viene parente, Di Maggio risponde che non ne sa nulla. L’indagine dentro Cosa nostra va avanti per qualche giorno e poi, all’improvviso, si ferma.

Perché il potente Lo Piccolo non vuole più sapere cosa è accaduto? Il pentito Gaspare Pulizzi (che è della cosca di Lo Piccolo) resta sbalordito quando c’è lo stop all’indagine ma non saprà mai il perché. Poi di pentito ne arriva un altro, Andrea Bonaccorso, che racconta di un incontro del boss della Piana dei Colli con un mafioso per “ragionare” sulla scomparsa dei Maiorana. È il 5 novembre del 2007. Lo Piccolo, contravvenendo a ogni regola di sicurezza, cerca un faccia a faccia con Matteo Messina Denaro. Il luogo dell’appuntamento è a Giardinello, una contrada fra Cinisi e Terrasini. Nel cielo volteggia un elicottero della polizia, Matteo e i suoi se ne accorgono e abbandonano l’auto, fuggono a piedi per le campagne. Salvatore Lo Piccolo e suo figlio invece vengono catturati.

Dirà qualche giorno dopo il boss di Bagheria Pino Scaduto a Bonaccorso: «Se i poliziotti avessero aspettato ancora un’ora, quel giorno ci sarebbe stato un quarantotto». È stato solo il rumore delle pale di un elicottero a far cambiare idea a Matteo Messina Denaro o una spiata? E perché quel “passo indietro” del boss Lo Piccolo? Dietro la scomparsa dei Maiorana c’è ancora molto di ignoto.

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